Da quando Andrea Marcolongo ha scritto “La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco” (Laterza) ottenendo un incredibile e – per molti – inaspettato successo, i suoi libri sulla tradizione classica sono sempre stati accolti dal pubblico con grande curiosità. L’ultimo di questi, “La lezione di Enea” (anche questo pubblicato da Laterza), pur se non pensato per la pandemia è uscito in contemporanea a essa, e allora la lezione di Enea è diventata anche quella di guida per una rifondazione, lo stesso compito che lui s’era trovato ad affrontare.
Mi pare di capire che, per te, Enea sia l’eroe della ricostruzione. In questo senso, adesso, ci torna buono perché tocca a noi ricostruire. A te sembra che ricostruire sia ripartire daccapo? O che ci stiamo portando dietro, nella ricostruzione, troppe cose?
Non mi sarei mai aspettata di trovarmi quasi un anno dopo l’inizio della pandemia a doverti rispondere che non siamo ancora arrivati al momento della ricostruzione. Siamo ancora in mezzo alla tragedia, ci siamo ancora dentro. Mi sarebbe tanto piaciuto poter giudicare chicchessia, il suo operato in quanto costruttore o ricostruttore, ma non siamo a quella fase. E forse è anche per questo che tutto è così snervante. È vero, anche il viaggio di Enea è durato un bel po’… forse stiamo vivendo anche noi un momento epico. Sai quando si leggono i poemi epici e pensi ai 10 anni di Troia? O agli anni del viaggio di Enea? E uno dice: «Mah, che esagerati questi antichi». Ecco, noi stiamo per sfiorare l’anno di pandemia e siamo stremati. Perciò non vedo l’ora che l’“Eneide” non sia più visto come un manuale di resistenza.
Non siamo più abituati ai tempi lunghi e alla difficoltà di immaginare il futuro.
È proprio così. Eravamo ormai abituati che una notizia non durava nemmeno dodici ore. Quando appariva sul sito del Corriere alla mattina, di sera non la trovavi più. Adesso l’apertura della homepage è la stessa da un anno.
Mi pare di capire che Virgilio tolga anche un’altra piccola consolazione in cui molti credono: il dolore non è utile e non rende migliori. Dico bene?
Sì, secondo Virgilio è così. Infatti, la cosa che ho trovato più liberatoria nell’“Eneide” è che con tutto quel dolore, le tragedie e le fatiche, alla fine Enea e Virgilio non pretendono di insegnarci niente. Non è che ci vendono tutta questa fatica di esistere come un percorso formativo o come delle buone lezioni che si possono trarre da una tragedia. E quindi, insomma, no, non ne usciremo migliori. Enea, però, “diceva” che ne usciremo veramente stanchi perché comunque dobbiamo uscirne. Ecco.
Negli ultimi anni più che sugli eroi classici come Enea ci si è concentrati sugli altri punti di vista. Più Didone che Enea. Più Ovidio che Virgilio.
Io non ho nulla pro o contro Enea, né Didone. E, oltretutto, questo libro nasce, in realtà, dall’essermi resa conto che quasi tutti abbiamo una vaghissima idea dell’“Eneide”: se ci pensi nessuno dice mai «l’“Eneide” mi piace». Io stessa devo ancora decidere se mi piace o meno. E quindi volevo andare al fondo di questa domanda: perché, pur avendola studiata a lungo, mi è sempre sembrata così sfuggente? Quindi perché Enea e non Didone? Bah. Per uno sguardo femminile? Forse perché non mi interessa poi così tanto, in generale, questa cosa di riscrivere il mito classico con altri occhi, magari prendendo le parti di qualcuno. Anche perché non è che questo libro sostiene che Enea sia molto simpatico o viceversa.
A nessuno piace l’“Eneide” perché – almeno a me sembra così – per molti il mondo classico è ormai quello greco, molto più di quello latino.
Questo è assolutamente vero. Ma le ragioni sono tantissime e vanno anche al di là del contenuto. Perché gli eroi omerici sono indelebili. Sono maestosi, sono titanici, sono l’eroe con la “E” maiuscola, sono proprio l’archetipo dell’eroe, mentre Enea non lo è affatto. E come se Omero avesse veramente compilato tutto il catalogo delle possibilità umane e l’avesse fatto in una maniera talmente irripetibile che, dalla sua epoca in poi, tutti coloro che ci hanno provato si sono sentiti in difetto, compreso Virgilio. I romani stessi si sentivano inadeguati e non all’altezza. Sapevano di aver copiato, in qualche modo, e di essersi ispirati comunque al repertorio greco. E noi non siamo da meno.
Quest’anno si parla molto di Dante per via del settecentesimo anniversario della morte. Ma, perfino quando parliamo di Dante e di “Divina Commedia”, Virgilio è messo un po’ da parte. C’è Beatrice, Dio, gli incontri delle tre cantiche, ma Virgilio?
Sull’“Eneide” ho una sola certezza e, cioè, che Virgilio sia stato un grandissimo, ma proprio un grandissimo, poeta. Ma è altrettanto vero che, persino quando si parla di Dante, la sua sia ormai la figura sbiadita del dux, dell’accompagnatore che guida e che, poi, arriva al Purgatorio e se ne va. Ma, quando poi si rilegge l’“Eneide”, ci si accorge anche che il debito di Dante nei confronti di Virgilio è così immenso per cui nemmeno la “Commedia” sarebbe esistita senza l’“Eneide”. Ci sono intere parti dell’“Eneide” che sono diventate una parte integrante del nostro immaginario, proprio attraverso Dante. Penso soprattutto al canto VI, al viaggio negli inferi di Enea. Per quanto riguarda invece la fama di Virgilio che sbiadisce nei secoli… bah, in effetti la storia della fortuna di Virgilio meriterebbe un libro a sé. Certi secoli hanno vissuto la “Virgilio fever” alla Ferrante e poi, all’improvviso, secoli di odio e di derisione.
Che idea ti sei fatta della didattica a distanza? Io sono colpito dalle posizioni sempre assolute che leggo in giro. Ho tre figli e la pensano in tre modi diversi…
Non ho un’idea chiara e, di conseguenza, una posizione precisa. Oltretutto io vivo in Francia dove le scuole da settembre sono sempre state aperte e dove credo che quasi non si sia nemmeno posto il problema di chiuderle, perché è stato deciso fin dall’inizio che la didattica a distanza non era all’altezza sul lungo periodo. Penso che, finché dobbiamo ancora resistere e finché la ricostruzione non potrà essere avviata, forse varrebbe la pena di fare un’indagine ancora più completa e rigorosa per capire i limiti della didattica a distanza, sia dal punto di vista pedagogico sia da quello epidemiologico. Altre volte, invece, ho semplicemente paura che sia mancata ogni riflessione, che si sia semplicemente spostato tutto “a distanza”, ma che la didattica sia rimasta la stessa di sempre. Quella che sapevamo rivedibile già prima della pandemia.
E nelle tue esperienze da docente cosa hai visto?
Da docente o da scrittrice, quando incontro i ragazzi, mi trovo a chiedermi: ma esattamente che cosa sto facendo? Non è che sto facendo la stessa cosa che avrei fatto se fossi stata lì? È anche difficile, immagino, vista dalla parte degli insegnanti… o almeno io non ho mai ricevuto alcuna formazione in merito ed essendo un altro tipo di modalità formativa non può essere data per scontata. Non si può continuare a improvvisare così tanto, perché così si lasciano soli gli studenti e soli pure gli insegnanti.
Hai visto quanta attenzione hanno suscitato le recenti scoperte a Pompei? È un segnale di una rinnovata attenzione per la classicità o un caso?
Non ti so dire se sia aumentata l’attenzione o lo spazio dedicato ai temi classici. Perché spesso poi si scade nella nostalgia, nell’evasione, nell’esotismo, soprattutto ora che siamo tutti chiusi in casa. Forse è interessante che riguardi proprio Pompei, perché al di là della scoperta che ha fatto anche sorridere – non ti dico i meme che ho visto girare, tipo che l’unico bar aperto ora è a Pompei – Pompei continua ad affascinare anche a prescindere dal classico. Qui a Parigi la prima mostra aperta, alla fine del primo confinamento, è stata dedicata proprio a Pompei. Semplicemente, ogni epoca subisce una fascinazione per il classico, perché ogni epoca vede nel classico ciò di cui ha bisogno, come in uno specchio, più che essere interessata alla singola scoperta o al valore filologico. A me questo aspetto affascina più di ogni altra cosa.
Noi cosa ci facciamo dire dai classici?
C’è lo spirito nostalgico insopportabile, il cliché di come stavamo tutti meglio prima, «ah, ma che epoca d’oro», oppure c’è quello ancora più insopportabile degli «oggi siamo totalmente incapaci» o «non siamo all’altezza» che alla fine non è altro che un alibi per dire «non siamo all’altezza, dunque non facciamo niente».
Tu non hai l’impressione che cerchiamo dai classici anche una sorta di visione zen della vita? Speriamo di imparare da loro l’imperturbabilità e la capacità di non farci toccare dal mondo… Così leggiamo Marco Aurelio pensando che lui insegni a non farsi toccare dalle cose della vita, ma Marco Aurelio guidava un impero, figurati se era attento solo alla vita contemplativa.
Assolutamente. La biografia di Virgilio, per esempio, è sinceramente gustosa, sembra la mia, la nostra. Questo ragazzo nato in provincia, che arriva a Roma, intraprende la carriera di avvocato che, all’epoca era come, non so, studiare alla Bocconi o ad Harvard, la carriera su cui puntavano i genitori che investivano sui figli, ma il ragazzo non ce la fa, si mette in politica e i genitori non sono mica felici.
Oggi, sostanzialmente, conosciamo Virgilio solo per l’“Eneide” che, tuttavia, lui pensava di distruggere.
Sì, questo mi fa sempre sorridere. Noi stiamo leggendo l’“Eneide” contro il suo volere, lui non la voleva pubblicare, aveva scritto nel testamento “bruciatela”, sono stati i suoi amici, poi, a salvarla.
Sempre per trovare ispirazione in giro: com’è che Enea diventa protagonista della ricostruzione?
In realtà, Enea si trova protagonista un po’ per caso. Non è il più forte, né il più valoroso, non è che a Troia gli dicano parti tu perché ti abbiamo scelto. Quindi, quello che noto in questo momento, e lo noto perché lo provo anche io – sarà umano, immagino – è che abbiamo tutti tanto bisogno di una guida, saremmo pronti molto volentieri a mettere in mano il nostro avvenire a qualcuno che ci dia una ricetta dignitosa e credibile per approdare a quella ricostruzione di cui parlavamo. Ma lo smarrimento più grande è proprio comprendere che nessuno ha questa ricetta. Nessun politico, nessun medico, nessun teorico, nessun filosofo, nessuno. La cosa che più mi destabilizza è che da un anno abbiamo tutti un po’ assunto l’atteggiamento del piccolo, del figlio, e cioè come se i politici, all’improvviso, fossero come i nostri genitori che ci dicevano cosa possiamo fare e cosa no.
Tu cosa pensi che ci sarà “dopo”?
È molto chiaro, quantomeno nell’“Eneide”, che il dopo non può essere uguale al prima. Il dopo di Enea si chiama Roma e non Troia. Lui è molto preciso nel dire, anche se gli fa molto male, che non dobbiamo cedere alla tentazione di ricominciare là dov’eravamo.