Virus bestialiLa distruzione degli habitat rischia di scatenare altre pandemie

Cambiare il nostro rapporto con gli altri esseri viventi, e la natura in generale, potrebbe essere un buon punto di partenza per scongiurare altri disastri come quello che tuttora sta coinvolgendo tutta la Terra

Pixabay

Tra le poche certezze raggiunte dall’ultima missione dell’Organizzazione mondiale della sanità in Cina sulle cause della pandemia c’è la sua origine animale. Il virus che ha sconvolto il pianeta nell’ultimo anno e mezzo è stato portato all’uomo dalla fauna, come accade nel 70 per cento delle malattie che diventano zoonotiche.

E proprio l’uomo, sempre più integrato con gli altri animali e sempre più impattante con le sue attività che entrano in contatto e talvolta distruggono habitat selvatici, indispensabili per la vita del pianeta, sta aumentando il rischio dello sviluppo di pandemie. Come ha sottolineato Roberto Bennati dell’associazione animalista Lav in occasione di un confronto web sul tema, cambiare il nostro rapporto con gli altri essere viventi, e la natura in generale, potrebbe essere un buon punto di partenza per scongiurare altri disastri come quello che tuttora sta coinvolgendo tutta la Terra.

«A fine aprile dell’anno scorso Ipbes – la Intergovernamental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’Onu – ha redatto un rapporto sulla relazione tra pandemie e perdita di biodiversità, un lavoro che ha impegnato un team internazionale di 22 scienziati, tra cui un’italiana. Il documento sottolineava in maniera esplicita una correlazione tra lo sviluppo dell’attuale pandemia, la sesta dall’inizio del secolo, e la perdita di biodiversità», ha sottolineato Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’area Conservazione biodiversità terrestre di Ispra e rappresentante italiano presso, intervenuto al panel virtuale.

Come suggerisce Ciccarese, questo rapporto sottolinea che ci sono almeno 850mila virus potenzialmente in grado di sviluppare una pandemia simile a quella che stiamo affrontando. I costi che abbiamo dovuto affrontare per la pandemia fino allo scorso settembre sono almeno 100 volte superiori a quelli necessari a prevenirla.

«Prima di tutto, i Sapiens dovrebbero convincersi di non bastare a se stessi, una convinzione che fa fatica a radicarsi», ha spiegato Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, intervenuto all’incontro sul web. Immaginiamo di vivere in un pianeta in cui ci siamo noi e le specie addomesticate, del resto ci importa molto poco perché non riusciamo a connettere la nostra esistenza con la ricchezza della vita nella sua complessità. Eppure, mantenere gli ecosistemi in salute significa mantenere in salute anche i Sapiens stessi».

Secondo Tozzi, bisognerebbe capire che questo virus, come anche certi batteri, è un micro-predatore che ha lo stesso fine dei macro-predatori: riprodursi (nel suo caso replicarsi) il più possibile. L’obiettivo è sfruttare il più possibile l’organismo vivente che lo ospita, prima di trasferirsi in un altro. «Se approfondissimo lo studio sul complesso dei viventi e non considerassimo sempre l’uomo al vertice di una piramide, in cui si è messo da solo, forse comprenderemmo che una soluzione già c’è, ed è quella di conservare integro l’ecosistema. Più natura significa più salute».

Nel corso dell’incontro è stato anche affrontato il tema del commercio di specie esotiche, un enorme business planetario, che consente di trasportare specie selvatiche da qualunque parte del pianeta per scopi ornamentali e come animali da compagnia. Questo – ha domandato Bennati – non è il primo rischio cui dovremmo rinunciare per trovare una parte della soluzione?

Come David Quammen spiega nel suo libro “Spillover”, non sono i virus che cercano noi ma siamo noi a farlo. Le pandemie che ci hanno colpito nel corso della storia sono derivate dal fatto che sono stati sempre più ridotti gli spazi naturali, aumentando così simmetricamente le occasioni di interazione tra la vita selvatica e gli animali addomesticati e gli umani. Oggi solo il 10 per cento del pianeta dispone di ecosistemi intatti, gran parte degli ambienti naturali sono stati distrutti o frammentati dalle infrastrutture.

«In questo modo – ha sottolineato Ciccarese – le possibilità di interfaccia tra esseri umani e specie selvatiche aumentano notevolmente. Se pensiamo allo sviluppo di malattie come Aids, Ebola o Sars il passaggio e il traboccamento dai depositi di virus agli umani sono avvenuti sempre a causa di attività umane. Molto probabilmente l’Aids è passato agli umani perché in diverse aree del pianeta, dall’Africa all’Asia, i primati sono considerati ancora cacciagione: una pratica sconsiderata che ha portato allo spillover dei depositi di virus negli animali selvatici, in questo caso i primati, e da quelli all’uomo». Come spiega il divulgatore scientifico Tozzi, nel caso del virus dell’Hiv il primo spillover risale al 1908 ma ce ne sono stati 12 prima di arrivare a quello degli anni ’80.

L’indagine svolta dalla commissione dell’Oms in Cina, sottolinea l’esperto Ispra, suggerisce che il passaggio del Covid-19 agli umani sia avvenuto per pratiche di wet-market, la vendita di animali domestici e non domestici, come pangolini e lo zibetto, macellati e seduta stante venduti. Questa promiscuità tra specie animali diverse e l’uomo rappresenta un’occasione perché lo spillover avvenga.

«L’altra questione – continua Ciccarese – riguarda il commercio illegale di animali, spesso di specie protette, che vengono commercializzati da una parte all’altra del pianeta nonostante il divieto sancito da diverse convenzioni internazionali come la Cites (Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione). C’è molto lavoro da fare, innanzitutto in termini di controllo, formazione ed educazione anche di culture che si servono di queste specie animali per scopi medicinali di dubbia utilità». Secondo un sondaggio del Wwf dell’anno scorso oltre il 90 per cento degli intervistati nel sud-est asiatico e a Hong Kong è favorevole a una chiusura da parte dei governi dei mercati illegali o non regolamentati di fauna selvatica, pratica molto diffusa in Paesi come Laos, Cambogia e Myanmar ad esempio.

Un terzo punto affrontato durante l’incontro web è stato quello degli allevamenti intensivi, argomento delicato e sensibile per un Paese come l’Italia che fa dell’allevamento di suini e bovini in particolare, ma anche delle specie avicole, un elemento di forza dell’economia nazionale. «Con la questione dei visoni danesi – spiega Tozzi – abbiamo capito che si tratta di pratiche che rappresentano celle di incubazione straordinarie per i virus e non solo. Se da quegli allevamenti uscissero esemplari contagiati da un virus diffonderebbero nel mondo animale le sue mutazioni che diventerebbero fuori controllo e si rinnoverebbero nei salti di specie successivi».

Il riferimento di Tozzi è alla decisione presa lo scorso autunno dal governo danese di abbattere quasi 17 milioni di visoni perché ospitavano una versione “mutata” del Covid-19, pericolosa al punto da minacciare di vanificare l’efficacia dei vaccini perché rendeva più difficile la creazione di anticorpi, ha causato una tempesta politica. L’alta concentrazione di animali negli allevanti danesi aveva infatti causato la doppia infezione: dall’uomo all’animale e poi dall’animale all’uomo con un virus modificato.

In Cina, spiega Bennati, l’epidemia dell’influenza aviaria H5N6, con un tasso di mortalità vicino al 50 per cento, ha fatto registrare oltre 900 casi di spillover nell’essere umano e ha mietuto già 450 vittime. «Mettere in discussione gli allevamenti che dispongono, ad esempio, di animali clonati deve diventare un elemento di politica perché la diversità genetica può garantire alla fauna una difesa contro i virus. Invece, con la standardizzazione genetica si attivano situazioni che incentivano la proliferazione delle malattie».

«Qui c’è in ballo una questione importante che riguarda la riduzione della diversità genetica delle specie. L’evoluzione percorsa dagli allevamenti negli ultimi decenni, produzioni standard che necessitano di una semplificazione e omogeneizzazione del patrimonio genetico degli animali per una maggiore produzione, ha incentivato l’erosione della diversità genetica all’interno della stessa specie», sottolinea Ciccarese.

Ma la riduzione della diversità genetica, conferma l’esperto Ispra, è l’anticamera della rapida proliferazione di malattie. Una realtà con cui dovremo fare i conti e per la quale dobbiamo ripensare i sistemi degli allevamenti. «Per fortuna – spiega Ciccarese – in Italia ci sono delle belle storie di successo di allevamenti dove il benessere degli animali è tutelato in modo significativo». Secondo Ciccarese, bisogna recuperare forme più sostenibili che partono proprio dal benessere degli animali allevati per ridurre i rischi della rapida diffusione di malattie. «Ricordiamo, a tal proposito, le recenti storie di aviaria e mucca pazza. Forse non abbiamo ancora capito abbastanza».

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