Quanto è rara la vita nell’universo? Fino agli anni novanta, la presenza di pianeti in orbita attorno ad altre stelle (esopianeti) era relegata al campo delle ipotesi e dei calcoli matematici.
Non avevamo alcuna idea concreta di quanti pianeti potesse contenere la galassia, né delle loro caratteristiche: temperatura, atmosfera, intensità dell’attrazione gravitazionale, sostanze chimiche presenti. Quando la tecnologia ha permesso di osservare direttamente i pianeti che orbitano attorno ad altre stelle, si è diffusa l’euforia. C’era infine la prospettiva di individuare pianeti che potrebbero ospitare la vita aliena.
I primi indizi sono stati deludenti. I rari pianeti scoperti erano grandi, caldi e composti di gas: non molto adatti alla vita, quale la conosciamo o di altro genere. Ma meno di vent’anni dopo la scoperta del primo esopianeta, c’è stato un grande balzo avanti con il lancio del telescopio spaziale Kepler, destinato a cercare eventuali pianeti scrutando le stelle soltanto in una regione del cielo minuscola e definita.
Appena sei settimane dopo l’attivazione, Kepler ha scoperto 5 nuovi esopianeti. Allo spegnimento, nel 2018, Kepler aveva scoperto l’incredibile numero di 2662 pianeti, esaminando soltanto le stelle di quel minuscolo angolo di cielo, equivalente più o meno a quello coperto dal pugno di un braccio teso.
Le conseguenze sono sorprendenti. La galassia contiene molti più pianeti di quanto credessimo; con il perfezionamento dei metodi di misura, ora sappiamo meglio come sono fatti. Abbiamo trovato un’intera gamma di condizioni planetarie: da pianeti gassosi caldi e grandi come Giove a quelli notevolmente simili alla Terra.
L’universo è ora molto più affollato di quanto sembrasse nel 2009; probabilmente i nostri nipoti non crederanno nemmeno che un tempo dicessimo: «I pianeti simili alla Terra sono rari». Ormai non abbiamo più scuse per dire che nell’universo scarseggiano i luoghi in grado di ospitare la vita aliena.
Oggi conosciamo più a fondo le condizioni fisiche ambientali che probabilmente si trovano sui pianeti alieni e sempre più spesso riusciamo addirittura a misurarle direttamente. Nuovi strumenti in corso di realizzazione potranno rilevare le sostanze chimiche nell’atmosfera planetaria, osservando le variazioni subite nell’attraversarla da parte della luce della stella attorno a cui orbita il pianeta. Ovviamente cercheremo l’ossigeno, ma anche sostanze chimiche complesse, indizi possibili di attività industriali. L’inquinamento è, paradossalmente, un segno di intelligenza cosmica.
In qualche modo, la vita è apparsa nell’universo almeno una volta. Noi ne siamo la dimostrazione. Ma non sappiamo come sia successo. Sono senz’altro numerose le teorie sui meccanismi che ne hanno permesso l’avvento sulla Terra.
La cosa più probabile è che le sostanze chimiche elementari necessarie per la vita si siano formate per caso; una coincidenza fortunata le avrebbe poi combinate in una molecola speciale, capace di replicarsi. In complesso, è una serie di circostanze abbastanza improbabile. Significa forse che la vita sugli altri pianeti si formerebbe allo stesso modo? Assolutamente no. Non sappiamo affatto quanto sarebbero rilevanti sugli altri pianeti i processi che nelle nostre ipotesi si sono verificati sulla Terra. Gli alieni potrebbero basarsi sulla chimica del carbonio, in maniera simile o meno alla nostra, o su qualcosa di completamente diverso.
Poiché conosciamo bene i princìpi della chimica, possiamo studiare in laboratorio molte idee di questo genere, verificando la stabilità o meno di varie sostanze. Riteniamo che composti come quelli che formano il nostro corpo siano ingredienti abbastanza adatti a qualcosa di «vivo».
Ma oltre le idee più elementari sulla possibile biochimica aliena, cala una fitta nebbia. Non abbiamo esempi di piante o animali alieni da esaminare, né la minima idea se i termini «piante» e «animali» abbiano un significato sugli altri pianeti. Malgrado l’ottimismo della Nasa riguardo alla scoperta dei segni di vita aliena, le distanze enormi tra le stelle richiedono un grande balzo tecnologico per visitare i pianeti fuori dal nostro Sistema solare. Possiamo far reagire in laboratorio le sostanze chimiche aliene, ma osservare uccelli alieni con il binocolo sarebbe un’impresa molto più difficile.
Come possiamo capire la natura degli alieni, se i nostri confronti si basano su un solo tipo di vita, quello presente sulla Terra? Fino a che punto l’unico esempio a nostra disposizione ci permette di trarre conclusioni sugli altri pianeti?
Alcuni sostengono che sia inutile fare ipotesi sulla natura della vita aliena; la nostra immaginazione sarebbe troppo vincolata all’esperienza che ci riguarda per riuscire ad abbracciare la stupefacente eterogeneità e le insolite possibilità forse realizzate sugli altri mondi.
Arthur C. Clarke, scrittore di fantascienza e autore di 2001: Odissea nello spazio, ha detto: «In nessun luogo dello spazio ci sarà dato di posare lo sguardo sulle forme familiari degli alberi e delle piante, o su uno degli animali che spartiscono con noi questa terra».
Spesso si ritiene che la vita aliena lo sia tanto da sfuggire alla nostra immaginazione. Non sono d’accordo. La scienza ci ha permesso di oltrepassare una visione tanto pessimistica; sembra che, in effetti, riusciamo a identificare alcuni indizi su come potrebbe essere la vita aliena. Questo libro sfrutta le nostre conoscenze sul funzionamento della vita e, soprattutto, della sua evoluzione per stabilire come sarà quella ospitata dagli altri pianeti.
Come è finito a occuparsi della ricerca di vita aliena uno zoologo terrestre come me, abituato soprattutto a seguire i lupi nelle nevi delle Montagne Rocciose o le impronte di iraci pelosi nelle colline della Galilea? Tra i miei argomenti di studio c’è la comunicazione animale, e il motivo per cui gli animali emettono certi suoni.
Nel 2014 ho tenuto al Radcliffe Institute di Harvard una conferenza intitolata: «Se gli uccelli parlassero, ce ne accorgeremmo?». Potrebbe sembrare ovvio che gli esseri umani abbiano il linguaggio e gli altri animali no, ma come possiamo avere la certezza che le cose stiano così? Cercavo i segni matematici tipici del «linguaggio» nella comunicazione degli animali, un criterio quantitativo che stabilisca nettamente: «Sì, questo è linguaggio», oppure: «No, questo non lo è».
Incoraggiato da bravi colleghi un po’ eccentrici, ho fatto l’ovvio passo successivo: porre la stessa domanda riguardo ai segnali provenienti dal cosmo. Questo è un linguaggio? Se sì, da che tipo di creature potrebbe essere originato? A quel punto diventa chiaro che possiamo generalizzare e applicare anche ai pianeti alieni le nostre conoscenze su altri aspetti della vita sulla Terra: la ricerca del cibo, la riproduzione, la competizione e la cooperazione con altri individui.
Ma perché studiare gli alieni nel contesto della zoologia, se non li abbiamo mai visti, e non siamo nemmeno sicuri che esistano? Quando gli studenti arrivano all’università, freschi di scuola e abituati a superare esami che verificano rigorosamente la memorizzazione di una lunga serie di fatti, il nostro primo compito di professori è spiegare che i fatti vanno benissimo, ma che bisogna capire i concetti; non che cosa succede nel mondo naturale, ma perché.
Comprendere i processi è la chiave della zoologia sulla Terra, ma può anche aiutarci nello studio di quella degli altri pianeti. Mentre scrivo, i nostri studenti del secondo anno qui a Cambridge si preparano per un viaggio di ricerca nel Borneo.
Alcuni ragazzi non sono mai usciti dalla Gran Bretagna. Ci aspettiamo che imparino a memoria una guida delle centinaia di uccelli e migliaia di insetti del Borneo? Certo che no. Come i futuri esploratori dei mondi alieni, devono partire armati soprattutto dei princìpi evolutivi responsabili dell’eterogeneità della vita che si troveranno davanti. Soltanto quando i concetti sono chiari diventerà possibile interpretare gli animali trovati.
Molti sono sicuri che le leggi della fisica e della chimica siano univoche e universali. Funzionano sulla Terra proprio come su qualsiasi esopianeta. Le previsioni formulate qui sul comportamento dei materiali fisici e chimici in varie circostanze saranno valide per quegli stessi materiali in circostanze identiche, altrove nell’universo. Facciamo affidamento sull’idea che la scienza funzioni così.
Alcuni però ritengono che la biologia sia un’eccezione. Fatichiamo a credere che le leggi biologiche derivate sulla Terra si applichino anche agli esopianeti. Carl Sagan, uno degli astronomi più famosi del Novecento, era convintissimo che la vita intelligente esistesse altrove nell’universo, eppure ha scritto: «A quanto sappiamo, invece, la biologia è una scienza letteralmente terrestre e provinciale e noi possiamo avere familiarità con un solo caso speciale in un universo di biologie diverse».
Quando affrontiamo l’ignoto, ci sono in effetti buoni motivi per essere cauti. Ma anche ragioni di ottimismo; bisogna solo formulare con attenzione le leggi della biologia perché siano davvero universali, proprio come quelle della fisica.
Perché mai la biologia dovrebbe essere «terrestre e provinciale», piuttosto che universale? Le leggi della natura, fisiche, chimiche e anche biologiche, non dovrebbero essere comuni a tutto l’universo?
È improbabile che la Terra sia tanto eccezionale da risultare soggetta a leggi diverse da tutti gli altri pianeti. Lucrezio, filosofo latino morto verso il 55 a.e.v., considerava inverosimile che gli elementi naturali fossero esclusivi del nostro mondo. Anche gli esopianeti hanno la «natura», benché non li abbiamo mai visti.
da “Guida galattica per naturalisti. Cosa gli animali ci dicono sull’universo”, di Arik Kershenbaum, Il Saggiatore, 2021, pagine 344, euro 26