Col corpo capiscoFrancesca Mannocchi ci racconta il mondo visto attraverso la lente della malattia

In “Bianco è il colore del danno” (Einaudi Stile Libero), la scrittrice e giornalista narra la sua nuova esistenza segnata dall’obbligo di rivedere da capo rapporti, storia familiare e aspettative. Arrivando a smuovere le certezze più profonde

da Pixabay

«Nei miei trent’anni mi ammalerò». Una profezia improvvisa che la coglie a otto anni, con «i capelli corti e una disperazione appena sbocciata».

Non sa che nel 2017, a 39 anni, le sarà diagnosticata la sclerosi multipla: «la medicina la definisce una malattia potenzialmente disabilitante del cervello e del midollo spinale, il sistema nervoso centrale, per intenderci». La frase, formulata alla maniera fredda e delicata del linguaggio medico, avvia il libro della scrittrice e giornalista Francesca Mannocchi “Bianco è il colore del danno” (Einaudi Stile Libero), avvolgente descrizione della malattia, la scoperta, le conseguenze su di sé, sui rapporti umani, sulla maternità e il concetto stesso di corpo.

«Bianco», lo spiega quasi subito, è il segnale della malattia nella lingua della risonanza magnetica. «Le onde risuonano sotto forma di segnali, deboli, la lingua del magnete e i segnali, quando vengono captati, diventano una mappa di impulsi in scala di grigi. Nero è assenza di segnale. Bianco è segnale massimo. Le mie lesioni sono bianche e la mappa in scala di grigi è la vita della malattia, il suo stare, il suo evolversi, dentro di me, potenzialmente degenerativo».

È con questa linea cromatica che il libro alterna ricordi e cronaca, riflessioni e racconti, con cui l’autrice fa i conti con la realtà. Sono i momenti del primo attacco («Mi tocco la gamba. Non la sento. Mi tocco il piede. Non lo sento. Mi tocco il braccio, l’ascella, il polso, ogni dito della mano destra e non sento niente. La mia vita con la sclerosi multipla è cominciata così, senza che lo sapessi, in una stanza laccata bianca che avevo chiamato Gemma»), quelli della diagnosi, le prime visite.

Ma è anche il filo da seguire nel libro dei ricordi, che viene riaperto inseguendo una spiegazione a quello che sta succedendo. È una «geologia delle cause del male, a passi lenti indietro nel tempo», perché «il paziente vuole sapere quando è successo che il suo corpo si è ammalato. Ha bisogno di posizionare l’Evento sull’asse temporale, di scriverlo sul diario, di segnare rosso un giorno sul calendario che sarà l’anniversario dell’invasione. Il malato cronico, il portatore di malattia autoimmune, non lo saprà mai. Non può avere memoria di come si è procurato il male, perché il suo corpo è esso stesso il male. Quello che può fare il malato cronico è scavare nella storia del suo organismo antagonista di sé stesso e nella storia dei corpi divoratori che l’hanno preceduto».

E così si torna al passato, alla gioventù a scuola, ai ricordi da bambina (con vestiti bianchi messi solo per fare piacere agli zii) e poi, più giù ancora, alla nonna che lavava i panni («candidi») per i signori di Roma. Quello che ritrova, in questa ricerca di cause e motivi, in questo affresco familiare di una piccola Italia di metà Novecento, fatta di fatica, lavoro e dedizione, è solo un passato punteggiato di bianco.

Ma il libro è anche presente: a partire da una maternità sofferta e colpevolizzata nei confronti del figlio Pietro, fino a toccare pensieri proibiti: «La malattia era lì da tempo, aveva detto il medico, qualcosa l’ha sollecitata. Aveva bisogno di essere invitata, aggiungo io. Aveva bisogno di una leva, e quella leva – forse – è stata mio figlio. Nei mesi immediatamente successivi alla diagnosi ho pensato (e nominato) cose indicibili: se non ci fosse stato Pietro, sarei malata?).

Ma c’spazio anche per intuizioni: sulla realtà della medicina, della cura e della malattia. Notevole la scoperta dell’incertezza assoluta in cui si muove la scienza di fronte al bisogno, altrettanto assoluto, dei pazienti di avere risposte: è lo stesso equivoco che si è visto in scena, del resto, negli scorsi mesi di pandemia, in cui una popolazione potenzialmente malata, o contagiabile, cercava certezza dagli scienziati, senza averne.

Ma il punto più profondo (e doloroso) è l’esplorazione del rapporto tra «sani» e «malati», dove il portatore del difetto, che subisce oltre alla sua condizione di diverso anche l’affronto della pietà altrui (una sorta di certificazione del danno), che altro non è che una maldestra copertura dell’angoscia.

Il malato, spiega, è vulnerabile, «dunque respingente, perché il guasto evoca il timore della dipendenza». E attacca la libertà. Per questo, spiega, il malato diventa anche cattivo, perché «vorresti contagiare le persone che hai intorno con quello che la malattia ti ha rivelato e portarle dove non ci sono maschere per la vergogna».

Ciò che racconta “Bianco è il colore del danno” è, insomma, la riscoperta della realtà delle cose, il rivedere da capo il senso del proprio corpo, del proprio passato e della famiglia. Ma anche del proprio essere nel mondo, che l’autrice definisce il suo essere intera. È la risposta, necessaria e ordinata, alla tempesta e allo «smucchio» provocato dalla malattia.

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