I draghianiPerché Marco Bentivogli dovrebbe fare il ministro dello Sviluppo Economico

L’ex segretario della Fim Cisl potrebbe essere la figura giusta per ricoprire un ruolo fondamentale per la ripresa economica. Il fondatore di Base Italia punterebbe in primo luogo a favorire gli investimenti e le “scommesse” sull’Italia da parte di imprenditori nazionali ed esteri, e saprebbe guidare al meglio il mondo del lavoro nella transizione digitale

Dopo avere propiziato l’incarico all’ex Presidente della Bce e salutato con entusiasmo il suo programma di riforme europeiste, c’è una candidatura che i partiti “draghiani” (Italia Viva, +Europa e Azione) dovrebbero apertamente promuovere nel suo doppio significato tecnico e politico: quella di Marco Bentivogli al ministero dello Sviluppo economico.

Come è noto dalle cronache, Draghi nelle consultazioni istituzionali con i partiti non ha fatto, né voluto che gli si facessero nomi, ma nessuno è così ingenuo da ritenere che il riserbo escluda l’esistenza di canali paralleli e informali, in cui le candidature sono avanzate e discusse, sulla base, certamente, dei rapporti di forza parlamentari, ma anche della coerenza con il progetto di governo.

È evidente che Draghi non tollererà né imposizioni, né veti. Ma i riformisti che intendono sostenere la sua azione di governo non possono rappresentare un’alternativa senza proposte e volti, in grado di incarnarla.

Da questo punto di vista, non c’è nessuno meglio di un sindacalista “eretico”, con un’idea fiduciosa e innovativa delle trasformazioni del sistema produttivo, del mondo lavoro e delle relazioni sociali, per rappresentare un’alternativa a due ministri – prima Di Maio, poi Patuanelli (che almeno comprendeva…) – che nella confusione ideologica più totale hanno ibridato un “descrescismo” paranoide con uno statalismo pavloviano e trasformato la politica per la crescita nel dopolavoro del plenipotenziario Arcuri, che, tra un ritardo e l’altro come commissario Covid, ha avuto il tempo di diventare, per conto dello Stato, pure padrone dell’Ilva.

In un ministero che dovrà affrontare 170 vertenze sindacali aperte e lasciate marcire e in cui la fine del blocco dei licenziamenti consegnerà ufficialmente alla disoccupazione 2 milioni di lavoratori, serve un ministro che non immagini ammortizzatori sociali e redditi di emergenza come alternative al lavoro e allo sviluppo e si preoccupi, in primo luogo, di favorire gli investimenti e le “scommesse” sull’Italia da parte di imprenditori nazionali ed esteri, che proprio le vicende Ilva e Autostrade rendono quanto mai scettici sulla possibilità di fare impresa in Italia in condizioni di certezza del diritto, senza diventare soci subordinati dello Stato.

Da dirigente e poi segretario della Fim Cisl, con iniziative coraggiose, come l’accordo di Pomigliano, che spaccò il mondo sindacale e gli guadagnò sgradevoli minacce di morte, Bentivogli, insieme ad una parte del sindacato, ha dimostrato che modelli produttivi e regole contrattuali innovative non comportano di per sé un sacrificio di diritti e di guadagni per i lavoratori. E dieci anni dopo, i fatti – quanto si lavora e come si lavora a Pomigliano – gli hanno dato abbondantemente ragione. Inoltre, Bentivogli è stato tra i primi sindacalisti a comprendere che la transizione digitale non avrebbe solo rappresentato un rischio, ma anche un’opportunità per la trasformazione del lavoro, a condizione di non pensare, e non illudere i lavoratori, che l’occupazione e l’occupabilità ai tempi della quarta rivoluzione industriale potessero essere interpretate secondo le categorie del passato.

Serve chi ha costruito piani di sviluppo industriale e gestito vertenze. Sono sicuro che anche il suo amico-avversario Landini preferisca avere una figura che, prima di tutto, comprenda i problemi lasciati sul tavolo.

Serve esattamente un ministro così, per uscire dal millenarismo di chi profetizzando «la fine del lavoro», oltre a maledire la «dittatura della crescita», propone come nuovo sole dell’avvenire un nirvana assistenziale universale, a spese, ovviamente, dei “padroni”.

Italia Viva, +Europa e Azione, che rivendicano a pieno titolo la svolta politica da Conte a Draghi, e anche il Partito democratico che ribadisce una vocazione riformatrice, hanno numerosi esponenti titolati per ricoprire incarichi di governo. Ma sarebbe utile – è un auspicio, anzi: un appello – che si unissero per promuovere un tecnico senza partito con l’idea politica dello sviluppo e del lavoro più innovativa che c’è e più consonante con la prospettiva di forze riformiste, che non si rassegnano a che il bipolarismo italiano rimanga l’alternativa tra la padella populista e la brace sovranista.

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