Il richiamo della forestaLa Meloni non vuole fare il premier, vuole rimanere padrona a casa sua

La leader di FdI non è interessata alla leadership del centrodestra, vuole solo tornare “come prima” (di Fiuggi) e rimanere fuori dal nuovo arco costituzionale. Perché l’opposizione perenne sul modello dell’Msi può essere un ghetto, ma anche un’assicurazione sulla vita

LaPresse / Roberto Monaldo

E dunque l’unica che resterà fuori dalla porta di Mario Draghi sarà Giorgia Meloni, e tantissimi non se ne capacitano. L’avevano raccontata per molto tempo come la faccia moderata del sovranismo, quella che con astuzia si era associata ai Conservatori europei fino a diventarne il capo, respingendo le suggestioni dei movimentisti anti-euro, il gruppo che ancora intrappola Matteo Salvini. In questa logica si poteva immaginare che fosse lei, non il Capitano, ad aprire una seria riflessione sull’appoggio al governo di salvezza nazionale. Stupore, quindi, e molti interrogativi. Come mai non ha visto l’opportunità? L’ha vista ma preferisce scommettere su una futura stagione di proteste? O anche – ed è l’osservazione più acuta, firmata Ugo Magri: è vittima del “richiamo della foresta” che arriva dall’antico ghetto della destra-destra?

Salvini, che è molto furbo, non ha perso tempo a coniare il paragone storico più comodo per sterilizzare una competitrice che da tempo lo infastidisce e lo preoccupa. È come nel ’45, ha detto, quando il Cln trovò l’accordo per rifare l’Italia e scrivere la Costituzione. Sottotesto: pure allora i fascisti non c’erano. Se questo tipo di pensiero si farà strada, come è possibile, vedremo il gioco dell’oca della destra ricominciare dall’inizio e l’esecutivo “di tutti” qualificarsi come un Arco Costituzionale 2.0, magari più morbido del precedente ma nella sostanza altrettanto interdittivo.

E tuttavia, siamo sicuri che alla Meloni interessi? Siamo certi che per la sua classe dirigente – fatto salvo il gruppo degli ex-deputati di area che ieri le ha scritto pregandola di ripensarci – sia un problema? Forse no. La generazione che oggi guida la destra, persone nate alla fine dei Settanta o anche più giovani, non ha mai vissuto il senso di minorità ed esclusione che angosciò i padri o i fratelli maggiori, con la durissima consapevolezza di essere esuli in patria. Ebbero i primi incarichi politici in una destra che aveva già passato Fiuggi (datata 1994: la Meloni aveva 17 anni), largamente sdoganata, addirittura vincente in molti territori. Percepirono le annessioni necessarie a sostenere l’allargamento della destra come un sacrificio. I Publio Fiori, i Domenico Fisichella, erano personalità che “inquinavano il racconto” (e chiedevano posti, candidature, ruoli). Succede, quando si è giovani. Ma poi quell’imprinting si è rafforzato nel tempo e la gelosia identitaria ha alimentato una sensibilità molto diversa da quella – per dire – di un Gianfranco Fini, che percepì la “riabiitazione” della destra come sua principale missione personale e politica.

“Si stava meglio prima” è un sottotesto che ha accompagnato tutta la storia dei ragazzi arrivati a destra dopo l’esperienza degli anni di piombo e la stagione infinita del Polo escluso. “Prima” la destra non doveva scendere a compromessi. “Prima” i suoi capi erano indiscussi. “Prima”, i voti erano in frigorifero, i parlamentari pure, ma in quasi tutti i giochi che contavano la destra riusciva a esercitare un ruolo, dall’elezione del presidente della Repubblica (memorabile quella di Giovanni Leone, dove risultò determinante) alla legge di riordino delle tv dell’85 che sistemò gli affari del Biscione (determinanti pure lì). “Prima” – anche se questo è brutto dirlo – gli incarichi e i ruoli parlamentari a destra erano una sistemazione a vita: nel vecchio Msi la maggior parte degli eletti del primo Dopoguerra restò al suo posto, alla Camera o al Senato, fino alla soglia degli anni Novanta e oltre.

Vale la pena ricordare che la destra pre-sdoganamento visse stagioni ottime o talvolta pessime, ma sotto i 30 seggi a Montecitorio non scese mai. Paradossalmente il risultato più magro fu quello del ’94, dopo l’accordo con Silvio Berlusconi, quando la pattuglia degli eletti missini alla Camera precipitò a quota 23: il baratto tra governo e forza parlamentare risultò conveniente per qualcuno, ma la gran massa del partito rafforzò la sua idea. “Si stava meglio prima”.

Negli ultimi due anni l’idea generale è stata che Giorgia Meloni puntasse al sorpasso di Matteo Salvini e quindi a costruire una posizione vincente di candidato premier del Centrodestra. Ecco, con il senno di poi forse era un’analisi sbagliata. I calcoli sulla base dei sondaggi assegnano a FdI quote notevoli nella prossima legislatura, dove sarebbero i soli a incrementare la rappresentanza: tra i 50 e i 60 eletti alla Camera, oltre 70 al Senato contro gli attuali 33 e 19. L’idea di gestirli “come prima” probabilmente è una suggestione che si è fatta strada, e hai voglia a citare il ghetto, l’esclusione, il ritorno nel recinto dei reprobi come ai tempi del Cln, i cinquant’anni che ci sono voluti per uscirne: visto dall’interno, il ghetto (soprattutto per chi non ci è passato) può risultare una sistemazione confortevole e un’assicurazione sulla vita politica a lunghissima scadenza. «Il potere logora chi non ce l’ha», in fondo, è una battuta da democristiani, e poi ci sono tanti tipi di potere: a Giorgia Meloni, al momento, interessa innanzitutto restare padrona a casa sua.