Il Partito democratico considera il nascituro governo Draghi alla stregua di “un governo amico”. Si coglie infatti nelle parole, pur di sostegno, dei dirigenti dem una sorta di estraneità (per usare una parola cara a Leonardo Sciascia e Alberto Moravia, in tutt’altro contesto), che non è tanto una rivendicazione della propria autonomia ma proprio un approccio psicologico e politico ammantato di freddezza.
Non è il “nostro” governo: questa è la realtà, al di là delle belle parole. Quanto è diverso questo pathos rispetto a quello mostrato verso Giuseppe Conte, ma persino verso Mario Monti, persino verso Lamberto Dini: e non è solo perché quei tre premier ribaltarono esecutivi di destra. E allora perché solo un “governo amico”?
L’espressione, si sa, fu coniata da Alcide De Gasperi in un articolo del 7 dicembre 1953. Il leader democristiano, da poco reduce dalla bruciante sconfitta alle Politiche di quell’anno, era già prostrato nel fisico e molto amareggiato nell’animo: al suo posto, come presidente del Consiglio fu chiamato un altro dc, Giuseppe Pella, e il fondatore dello scudocrociato capì che quello non era il governo della “sua” Dc ma appunto solo un “un governo amico”. E così pare oggi.
Le ragioni della freddezza del Nazareno sono varie. Il Pd più di altri partiti va in sofferenza in un quadro di “cessione di sovranità” (così ieri Lucia Annunziata) dei partiti a favore non di un “tecnico”, che alla fin fine è più “controllabile”, ma di un leader politico come Mario Draghi che, nel merito delle questioni, i partiti se li mangia a colazione. Sarà lui a dirigere i partiti, non i partiti a dirigere lui.
Ieri, proprio parlando con la Annunziata, Nicola Zingaretti ha voluto dissipare l’idea di voler condizionare il presidente incaricato: e lo ha fatto per placare i tanti dirigenti e quadri intermedi (difficile parlare di “base”) che vorrebbero dettare a Draghi agenda, tempi e contenuti, già timorosi di una situazione nella quale i dem poco altro farebbero se non portare acqua all’ex presidente della Bce, dovendo peraltro sopportare un durissimo prezzo in termini di perdita di potere.
La seconda ragione è che per la prima volta nella recente storia italiana un governo diretto non da un uomo di partito non è pensato e costruito dal partito-Ditta. A differenza degli esecutivi di Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Romano Prodi e Mario Monti, questo governo Draghi viene fuori dalla testa dell’odiato Matteo Renzi, con l’apposizione del finale sigillo da parte di Sergio Mattarella.
Di qui, un evidente fastidio, se non addirittura un sospetto con punte di animosità da parte di quella corrente di sinistra che governa il Nazareno e che detesta non detenere le redini della Storia («Veniamo da lontano e andiamo lontano») e non tollera di non aver saputo prevedere il corso delle cose, al punto di svillaneggiare quanti da mesi evocano la crisi del contismo e denunciano l’assurdità dell’alleanza strategica fra Pd e M5s che ne era l’infrastruttura politica e che, a onta dei fatti, si pretende di riproporre.
È dunque in questo humus malmostoso e sospettoso, corroborato poi dal riflesso antileghista, che è germogliata venerdi sera l’ipotesi di non avere ministri dem: quanto di più gelido possa essere un atto politico. La voce è corsa, è stata assimilata persino dai più stretti collaboratori di Zingaretti e rapidamente è finita alle orecchie dei giornalisti. Ma poi ci si è resi conto che azzoppare Draghi proprio alla partenza non sarebbe stato esattamente un buon servizio al Paese, oltre a essere un evidente sgarbo al capo dello Stato (per inciso: una delle cose più paradossali di questa situazione è che molti esponenti del Pd, e di LeU scuola Bersani, da sempre molto mattarelliani, adesso ce l’abbiano proprio con il presidente). Alla fine la cosa più probabile è che Draghi, anche per evitare impelagamenti fra i vari manuali Cencelli dei partiti, chiami nella squadra solo dei tecnici.
Certo, il tentativo di Zingaretti di rigirare la frittata è assolutamente comprensibile anche se dialetticamente spericolato. Il segretario è arrivato a sostenere che Draghi è merito del Pd – «Un nostro capolavoro» – quando, fino alla settimana scorsa, “prestava” la senatrice Tatjana Rojc ai Responsabili del Maie per far loro raggiungere i dieci senatori per poter costituire il gruppo parlamentare: uno dei passaggi più grotteschi della crisi del governo Conte, che tuttora è nel novero dei possibili “federatori” del gruppone Pd-M5s.
Naturalmente, la freddezza di Andrea Orlando, il nervosismo della segreteria, l’assordante silenzio di Goffredo Bettini, l’ultimo dei contiani smarritosi nella giungla, i ritardi espressivi di Zingaretti, anche qualche mal di pancia di Dario Franceschini, tutto questo ha determinato una reazione di Base riformista, dei capigruppo, di molti parlamentari, oltre che dei super-riformisti di Tommaso Nannicini e Giorgio Gori.
La richiesta di un congresso avanzata dal portavoce di Base riformista Alessandro Alfieri è stata accolta dal segretario, e dovrebbe trattarsi di un congresso “vero” – non si sa quando – di sfida fra l’opzione filogrillina e tardo-contiana e il rilancio di una vocazione riformista che guarda al centro del nuovo assetto politico che è destinato a nascere nell’era draghiana mettendo in discussione tutti gli assunti di questi anni che hanno caratterizzato la politica di Nicola Zingaretti.