«Due mesi per rimettere in sesto il Partito Laburista di Israele». È così che The Times of Israel presenta la missione impossibile della neo-leader della sinistra israeliana, Merav Michaeli, eletta alla fine del mese di gennaio. Ex giornalista, deputata da una decina di anni, molto di sinistra e molto femminista (paladina della gender equality, non ha mai sposato il compagno per protesta contro l’istituzione del matrimonio, non si trucca, veste solo di nero), la 54enne Michaeli ha, alle sue spalle, una storia politicamente lineare e, davanti a sé, un futuro piuttosto ingarbugliato.
La ragioni per le quali il suo passato appare lineare sono tutte nelle sue posizioni politiche che, nel corso degli anni e delle elezioni, non sono quasi mai cambiate. Da ragazza era una fan di Yitzhak Rabin, oggi è una leader che intende camminare sulle orme del leader assassinato: crede nella soluzione dei due Stati; crede nel fatto che Israele debba impegnarsi di più sia per le politiche ambientali, sia per quelle sociali; crede che le enormi fette di disuguaglianza presenti in Israele non siano tollerabili; crede, soprattutto che Benjamin Netanyahu e il suo decennale governo, siano una iattura per il suo Paese: «Il peggior premier che Israele abbia mai avuto», twittava quando era ancora il 2015.
Da quella posizione di radicale e completa opposizione a Netanyahu, Michaeli non si è praticamente mossa, tanto che nel 2020, dei tre parlamentari laburisti presenti nella Knesset, solo lei ha rifiutato di appoggiare l’attuale esecutivo di coalizione guidato da Netanyahu. Mentre gli altri due suoi compagni di partito non solo hanno appoggiato il governo (tradendo in modo clamoroso ed esiziale le loro promesse elettorali) ma ne sono anche diventati ministri (uno dell’Economia, l’altro del Lavoro).
Un passato lineare, però, deve pagare il contrappasso di un futuro incerto e complicato. Michaeli è stata chiamata, attraverso primarie a cui hanno partecipato 10mila elettori, a guidare un partito il cui scopo non è vincere, ma sopravvivere, ossia superare la soglia di sbarramento del 3,5%. Il che è un destino decisamente amaro per il Labour, che per decenni è stato non solo forte, ma addirittura egemone (ha espresso tutti i premier israeliani dal 1948 al 1977).
Per questo, Michaeli sa che il suo lavoro, nei prossimi mesi, non sarà contendere il governo a Netanyahu (una missione quasi impossibile per chiunque, ancor di più per un Labour ridotto al lumicino), ma rilanciare il suo partito, dare a esso voce, struttura, ossatura.
Lo sa anche lei che non deve vincere le elezioni del 23 marzo ma costruire, ripartendo quasi da zero, il suo partito: «La prima priorità è rimettere in piedi il partito, in modo che superi la soglia di sbarramento della Knesset – ha dichiarato a Times of Israel -, tutti pensano che il partito sia spacciato. La prima cosa che dobbiamo fare è ripristinare negli elettori l’idea che ci siamo ancora e che siamo ancora qualcosa in cui si può credere».
Operazione assai difficile, forse più difficile che vincere le elezioni, quella di rinfondere linfa nelle vene di un partito svuotato ed esangue, del quale non si fida più nessuno, perché non lo si considera più (dopo la seconda intifada degli anni 2000) in grado di proteggere le stesse vite dei cittadini.
Eppure, per quanto ardua sia, l’operazione a Michaeli, sta in parte riuscendo visto che, dopo la sua nomina, il suo partito ha ripreso fiato e viene dato stabilmente attorno al 6%, ossia ampiamente in zona salvezza.
Ma non è tutto: la seconda ragione che rende il futuro di Michaeli complicato è il fatto che alle elezioni manca un mese e lei è stata incaricata solo a fine gennaio. Quel che deve fare nelle prossime settimane non è solo rimettere in sesto un partito allo sbando (per stessa ammissione di Michaeli, non ha a disposizione soldi per commissionare sondaggi) e portare qualche candidato in parlamento, ma anche quello di trovare il modo, le alleanze e persino – horribile dictu – la strategia per espellere Netanyahu dal potere.
Un’impresa che appare difficile, ma non impossibile: secondo i sondaggi del quotidiano israeliano Haaretz «tutti i partiti che dicono di essere pronti a sostituire Netanyahu, sommati tra loro dovrebbero ottenere 66 seggi su 120. Mentre il Likud di Netanyahu dovrebbe fermarsi a 29 seggi e, insieme ai partiti con i quali potrebbe allearsi, arrivare a 44 seggi».
Uno scenario che se si avverasse terrebbe Netanyahu lontano dal governo per la prima volta in dieci anni. Ma che segnerebbe solo l’inizio e non la fine del lavoro di Michaeli. Una volta salvato, il Labour andrà rifondato. E una volta sconfitto (posto che venga sconfitto davvero) Netanyahu, in Israele occorrerà trovare una nuova leadership, solida e credibile. E se Michaeli aspira, per se stessa o per il suo partito, a questo ruolo, la fatica vera inizierà un minuto dopo le elezioni.