Il lamento per la sostituzione del cinema da parte delle serie tv si alza alto già da molti anni, con degli «Ahhh, ma vuoi mettere la magia della sala?», nel ruolo di quegli «Ahhh, ma vuoi mettere l’odore della carta?» che scattano come la lama di un serramanico ogni volta che si faccia una qualsiasi considerazione sulla compresenza di supporti fisici e di fruizioni digitali.
I libri sono la più formidabile delle cose inventate dall’uomo, ma l’odore della carta con tutto questo non c’entra proprio niente. Casomai, quando l’odore della carta di un libro lo si percepisce anche senza strofinarsi una pagina sotto le froge con la voluttà malsana di uno sniffatore di colla, allora quell’odore si chiama puzza ed è semmai un limite di quell’oggetto altrimenti perfetto che si chiama libro.
Allo stesso modo, la “magia della sala” non c’entra niente con quell’altra grande invenzione che è il cinema. Perché non c’è niente di soprannaturale né di arcano nella consapevolezza che, se sei seduto dritto su una poltrona e c’è uno schermo gigante e sei nel buio assoluto di uno spazio studiato apposta per la visione di immagini in movimento proiettate sullo schermo, queste immagini in movimento te le godrai molto. E che te le godrai un po’ meno, quelle immagini in movimento, se sei invece sdraiato tutto storto sul tuo divano e le guardi su un iPad, mentre sullo stesso schermino, o su quello del telefono che stringi in una mano, appaiono ogni due minuti delle notifiche di WhatsApp, finché poi, in alto a destra, appare anche la segnalazione che la carica della batteria dell’iPad sta tirando gli ultimi (e tu lo sai che il cavo dell’alimentazione è molto corto e che la presa è molto lontana) e intanto un bambino frigna nell’altra stanza o un congiunto russa sul divano a fianco. C’è molto di ovvio, e scientificamente dimostrabile, sui vantaggi di una sala cinematografica. Ma non c’è niente di magico.
Anzi: per quello che riguarda il cinema, finora l’unica magia (nera) l’ha realizzata il Covid-19: un minuto prima della pandemia le sale in cui si proiettavano i film c’erano e un minuto dopo, tac, le sale non c’erano più (o, meglio: c’erano ancora, ma avevano la porta sprangata). Se le sale riapriranno – e quante e come e con che sorti – non lo sappiamo ancora. Intanto, però, c’è la mano santa delle serie tv, che in questo periodo di segregazione il cinema lo hanno surrogato e lo hanno tenuto vivo. Altro che ucciderlo.
C’è però un’altra cosa che già non era molto in salute e che forse le serie tv stanno uccidendo, cioè l’illusione secondo la quale, se si vuole arrivare davvero a una platea un po’ più ampia di quella degli specialisti, sia possibile raccontare la geopolitica – e cioè la forma profonda di tutti i mondi che formano il mondo – in un qualunque altro modo che non sia una storia di fiction ben fatta.
Da un paio di secoli si crede che il tentativo di spiegare a un pubblico generalista le stratificazioni profonde e le contraddizioni su cui si fondano i Paesi complessi (e cioè tutti i Paesi, compreso il principato di Andorra) debba passare soprattutto attraverso un ampio articolo di giornale, un reportage, un saggetto, un ciclo di conferenze (ahia, il ciclo di conferenze) o, nell’ultimo secolo, un servizio televisivo.
Avete presente? «Bisogna fare una piccola premessa: in Iraq ci sono gli sciiti, i sunniti e i curdi. Ma questa tripartizione è asimmetrica. Infatti, la divisione tra sciiti e i sunniti, che sono entrambi arabi ed entrambi musulmani, è di tipo religioso in quanto sciiti e sunniti appartengono a due correnti dell’Islam da secoli ostili tra loro. Invece, la divisione rispetto ai curdi è di altro tipo, perché, anche se dal punto di vista della fede i curdi sono anch’essi sunniti, dal punto di vista etnico non sono arabi, ma, appunto, curdi».
Oppure: «Bisogna fare una piccola premessa: l’Iran (sciita) e l’Arabia Saudita (sunnita) si combattono per interposte persone in tutto il Medio Oriente, finanziando e aiutando militarmente i loro correligionari in tutti i luoghi di conflitto. Infatti l’Iran, oltre a sostenere la minoranza sciita in Arabia Saudita, appoggia anche gli sciiti dell’Iraq e del Bahrain e dello Yemen. E poi Teheran, che è da sempre alleata con il regime siriano, è anche il massimo sponsor degli Hezbollah in Libano e, nel corso degli anni, ha supportato in modo determinante anche Hamas in Palestina». Ah, ma quindi i palestinesi sono sciiti? No, neanche uno: sono sunniti. Ma qui ci vorrebbe un’altra premessa. E così via.
No, non ci siamo. Perché, quando si parla di Medio Oriente, se non si fa una premessa del genere quasi nessuno capisce niente di quello di cui si sta parlando. Ma nessuno, o quasi, che non sia veramente interessato alla questione – per motivi di studio o di lavoro o per una qualche sua personalissima perversione – può (né vuole) andare oltre una premessa del genere.
E infatti, se siete ancora qui, è perché probabilmente siete tra i pochi che, per qualche loro oscuro motivo, si districano con qualche agilità tra simili distinguo mediorientali. Ma oggi sembra invece esserci un altro modo di raccontare queste faccende che sembrano (e sono) complicatissime, ma che sono anche abbastanza determinanti per capire qualcosa del mondo in cui viviamo. E questo modo è reso possibile dalla enorme dilatazione del tempo del racconto che è offerta dalla serialità.
Siamo travolti da un flusso continuo di serie tv diversificatissime e ultraspecifiche per contesto geografico, nazionalità dei creatori e lingua in cui sono recitate. E, soprattutto, sono serie tv in cui le sceneggiature – che sono piene di amori e di odi e di personaggi indimenticabili e di deus ex machina e di snodi e di colpi di scena (piene di fiction, per dirla in una sola parola) – sono però montate in un telaio che sembra estratto da un manuale di geopolitica. O da un numero di Limes.
All’inizio ci sono state mille serie sulle pieghe più minute della politica americana. E, vabbè, troppo facile. Poi, ci si è spostati in Europa e “Borgen” – quel piccolo capolavoro che, dal 2010 al 2013, fece sembrare una cosa viva e addirittura una cosa appassionante la politica danese e il suo sistema parlamentare (sì, “sistema parlamentare”, e, sì, “danese”) – era sembrata essere una serie tv miracolosa e irripetibile. Ma, in qualche modo, ancora for nerds only. E invece.
E invece ora si va a ondate. Da qualche tempo è il turno di tutto ciò che sta in Medio Oriente e nei suoi dintorni. C’è la Turchia di “Ethos” (Netflix), con otto episodi in cui, parlando di un piccolo gruppo di persone normali (una ragazza che porta il velo e appartiene a una famiglia semplice, suo fratello, sua cognata depressa, la sua psichiatra, la psichiatra della sua psichiatra, il suo datore di lavoro che è anche l’amante della psichiatra della sua psichiatra eccetera), si racconta quasi tutto quello che c’è davvero da sapere sulla linea di faglia che sega in due la società di quel Paese. E lo si racconta splendidamente. E lo si racconta meglio che in un qualunque articolo o saggio pieno di inevitabili premesse. E lo si racconta a chiunque sia almeno un pochino curioso di vedere che cosa succeda in quel pezzo del mondo.
(Tra l’altro, guardando “Ethos”, si scopre anche un’altra cosa: con una bella sceneggiatura e degli attori bravi, il cinema turco, che non è esattamente noto per la concitazione del suo ritmo narrativo e che produce spesso dei film drammaticamente lunghi, trae un imprevedibile giovamento dall’ulteriore allungarsi della durata. “Ethos” si estende per otto puntate di circa 50 minuti ciascuna e la dilatazione dei tempi consente di indulgere per qualche secondo in più su dei dettagli irresistibili – quella ciabatta, quella carta da parati, quel cuscino – senza che la regia si dimentichi però di inserire anche una trama).
Ora, non tutto è di grande qualità come “Ethos” o irresistibilmente esaltante come “Fauda” (Netflix), la serie israeliana che racconta le vicende di un’unità di forze speciali che opera sotto copertura in Cisgiordania e a Gaza. Il grande scrittore spagnolo Sergio del Molino, in una column sul País, in cui racconta le sue impressioni su un’altra serie israeliana, “Valley of Tears” (che parla della guerra dello Yom Kippur del 1973 e che in Italia non è ancora stata distribuita), confessa: «Ho schivato per un pelo di fare il militare. La destra patriottica di Aznar (oh, paradossi della storia spagnola), mi ha liberato dalla necessità di dichiararmi obiettore e di dare un dispiacere alla mia famiglia in nome del pacifismo (…). Ma, ciò nonostante, non c’è un genere che mi emozioni e mi piaccia di più di quello bellico. E, quanto più puzza di testosterone, tanto meglio».
Ecco, questa è esattamente anche “Fauda”: puro testosterone. Eppure, la sceneggiatura di “Fauda” è anche una tessitura fittissima intorno alla storia di Israele, alle sue nevrosi, a che cosa, ad esempio, significhi essere un ebreo israeliano nato in una famiglia che ha vissuto per secoli in un Paese arabo, a Baghdad per esempio, e che quindi parla perfettamente la lingua degli “altri”. E quali divisioni attraversino la politica palestinese e che cosa sia l’Olp e che cosa sia Hamas e che cosa significhi appartenere a Hamas a Gaza e che cosa significhi invece appartenere a Hamas in Cisgiordania.
Sempre in Medio Oriente o zone limitrofe sono ambientate anche “Baghdad Central” (su Now tv, racconta di un poliziotto iracheno nel 2003, dopo l’intervento americano) e “Tehran” (su Apple TV+, racconta di un’agente del Mossad infiltrata nella capitale iraniana) e la serie norvegese “Nobel”, ambientata in Afghanistan. E poi c’è la Siria. Qualche giorno fa, Hillary e Chelsea Clinton hanno annunciato la volontà di produrre una serie tratta da “The Daughters of Kobani”, un libro di Gayle Tzemach Lemmon di prossima uscita negli Stati Uniti. Ma non è tutta guerra e violenza: ci sono anche delle serie tv “mediorientali” di altra natura, come l’israeliana “Shtisel” (Netflix), che racconta la comunità haredi (ebrei ultraortodossi) a Gerusalemme e che in Europa ha goduto del traino offerto dal successo dell’americana “Unorthodox” (Netflix).
Non tutti i prodotti sono altrettanto raffinati e altrettanto attenti nel raccontare, sotto la crosta della fiction, la complessità della politica, delle minoranze, dei conflitti e dei problemi geopolitici. Ma, ormai, un po’ si aspetta che lo facciano. E, quando invece si resta delusi sotto questo punto di vista, si finisce di pestare durissimo. Indispettito dalla sceneggiatura di “No Man’s Land” (Starz Play – Amazon Prime), una serie tv che parla della guerra in Siria, il critico Adrian Hennigan ha scritto su Haaretz: «Tutto ciò che posso dire, dopo aver visto le otto puntate, è che i creatori della serie sono riusciti ad applicare al racconto dell’Isis e dello Ypg, gruppo curdo a forte presenza femminile, la stessa profondità che degli sceneggiatori siriani avrebbero potuto mostrare raccontando le liti interne ai chassidim di Gerusalemme». Perché è questo, ormai, il livello di dettaglio che si chiede a una serie tv: quello, da miniaturisti, che sarebbe capace di raccontare le liti interne ai gruppi chassidim di Gerusalemme.
In effetti, le migliori tra queste serie tv, anche quando affrontano scenari molto difficili, non fanno nessuno sconto sulla complessità. E tengono conto del dettaglio più di quanto, salvo eccezioni, i film abbiano mai potuto fare (perché in un lungometraggio di un’ora e mezza o due la premessa sui curdi o sulle influenze iraniane in Palestina proprio non ci stanno). E non lo hanno potuto fare quasi mai – nemmeno nell’Ottocento, pena una noia mortale (le “grida” manzoniane!) – neanche i romanzi storici. Anche perché queste serie tv hanno in più, rispetto a qualsiasi romanzo, anche il suono. E cioè il fatto di essere girate nelle lingue, o addirittura nei dialetti, originali. E di poter essere viste in quella lingua, e con i sottotitoli, con la sola pressione di un tasto. E poi “mostrano” i posti (o almeno fanno finta, perché, ecco, neanche l’onnipotente Netflix può girare a Gaza).
L’effetto è sorprendente. Dopo una full immersion nelle sparatorie da videogame di “Fauda” o negli smottamenti psichiatrici delle protagoniste di “Ethos”, ci sono persone insospettabili che discettano, come se fossero degli analisti dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), sull’Autonomia nazionale palestinese o sul secolarismo in Turchia al tempo di Erdoğan. E comunque ci sono persone che diteggiano su Wikipedia cercando qualche risposta a quel tipo di curiosità etnologiche (“yiddish-lingua-diffusione”) o geopolitiche (“curdi-alleati-Turchia-Siria”) che non li aveva mai colti dopo la lettura di un articolo di giornale o di un servizio in tv.
Ma forse questa è soltanto una fantasia, derivante dalla permanenza in qualche “bolla”. E forse, nella realtà, la gran parte dei binge watchers se ne fregano altamente di queste complessità offerte dalle serie tv mediorientali. Ma, anche se così fosse, di queste serie rimarrebbero almeno quegli elementi di pura fiction che negli articoli e nei saggi invece non ci sono.
E non è poco. Come scriveva qualche anno fa il critico letterario Peter von Matt, in un saggio poi raccolto nel volume “La Svizzera degli scrittori” (Armando Dadò editore), «i greci possedevano una dea per la storiografia, come per il canto e per la danza. Clio, una delle Muse, figlia di Zeus e di Mnemosine, suscitava quell’entusiasmo che permetteva agli storiografi di descrivere e suscitare le azioni e le sofferenze del loro popolo. Nel corso della battaglia della ragione civilizzatrice contro l’ebbrezza della storia si è reso necessario dimenticare il fatto che la storiografia è un prodotto estetico al pari della tragedia e del poema epico, dell’arte del flauto e del canto».
Gli sceneggiatori di Netflix e delle altre piattaforme digitali – che pure probabilmente non leggono Peter von Matt, ma che del modo di raccontare dei greci, e quantomeno della tragedia e dell’epica, qualcosa sanno senz’altro – l’ebbrezza del racconto non se la sono certo dimenticata. E quindi lo spettatore, anche quando la ricostruzione del contesto è accurata e articolata in tutta la sua complessità, può anche ignorare la Storia. Tanto, gli rimane comunque la storia.
Peraltro – con l’eccezione di chi avesse una laurea in Giurisprudenza e avesse frequentato professionalmente, per almeno un decennio, i meccanismi incredibili della Giustizia americana – c’è forse qualcuno che sarebbe tanto bugiardo da poter affermare di aver capito, ancorché parzialmente, lo svolgimento di anche soltanto una delle decine di cause che compaiono nelle nove stagioni di “Suits”? No? Bene, e allora ci si può senz’altro godere anche “Fauda” o “Ethos” o “Valley of Tears” solo per le storie che raccontano, al di là del contesto. E continuare a non sapere felicemente nulla di Hamas, di Atatürk o di quale fosse la storia di Golda Meir.