Tra le tante elezioni politiche che si terranno in piena pandemia vi saranno quelle in Palestina: quelle legislative si terranno il 22 maggio, quelle per la presidenza della Autorità Nazionale Palestinese (Anp) il 31 luglio e quelle per il Consiglio Nazionale della Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) il 31 agosto.
La notizia è di rilievo perché sono ben 15 anni che non si tengono elezioni in Palestina, perché Abu Mazen è presidente della Anp pur essendo ampiamente decaduto, ma soprattutto per una ragione di fondo: la totale incapacità dei palestinesi di avviare una trattativa credibile con Israele deriva, dalla morte di Arafat nel 2004 in poi, dalla drammatica, radicale spaccatura tra Olp e Abu Mazen da una parte e Ismail Hanyeh e Hamas dall’altra – parti che non hanno peraltro riconosciuto l’un l’altra i risultati delle elezioni del 2006.
Di fatto, Abu Mazen sinora ha parlato solo per la Cisgiordania e Ismail Hanyeh – che non riconosce gli accordi di Oslo del 1993 e men che meno il diritto di Israele di esistere – rappresenta solo Gaza. Il tutto con reciproci arresti incrociati dei rispettivi dirigenti e militanti nelle due regioni, e addirittura una sanguinosa guerra civile interpalestinese a Gaza nel 2006-2007 (346 morti, dei quali 98 civili e più di 1.000 feriti).
A questa radicale debolezza politica e di rappresentanza palestinese, che è alla base del fallimento delle trattative, si aggiunge la totale impraticabilità delle richieste anche del “moderato” Abu Mazen, a partire dal fantapolitico diritto al ritorno di 6 milioni di palestinesi eredi degli esuli dalle guerre dal 1948 in poi.
Un diritto che non è stato non applicato a nessun popolo di esuli nel mondo: ci sarebbero, nel caso, 1.500.000 eredi degli esuli istriani e dalmati di lingua e tradizione italiane che potrebbero tornare come cittadini in Slovenia e Croazia, per non parlare delle decine di milioni di eredi degli 8 milioni di esuli tedeschi dalla Polonia, Russia e Ucraina fuggiti nel 1945.
L’accordo elettorale tra palestinesi è stato siglato grazie alla mediazione e alle forti pressioni dell’Egitto e della Turchia e prevede la garanzia del reciproco riconoscimento dei risultati del voto. Questione tutt’altro che certa, visti i precedenti, soprattutto per le elezioni presidenziali che vedono nei sondaggi l’anziano Abu Mazen (85 anni), che si è ben guardato dal formare un valido successore, nettamente superato col suo 43% da Ismail Hanyeh, accreditato di un rotondo 50%.
Diverso il pronostico per le legislative con sondaggi che danno al Fatah al 38% e Hamas al 34% in un sistema elettorale proporzionale nel quale hanno peso per la formazione del governo le alleanze con liste minori, più vicine ad al Fatah. Quest’ultima ha comunque davanti a sé due problemi non piccoli: innanzitutto deve impedire di presentare una sua lista a Mohammed Dahlan, ex potentissimo capo della sicurezza palestinese ora costretto all’esilio negli Emirati.
Dahlan è relativamente giovane, gode di una potente rete di rapporti internazionali e di una sua rete articolata di favori in Cisgiordania (i suoi uomini a Gaza sono tutti stati uccisi o esiliati nel 2006) e sicuramente l’Egitto lo vedrebbe come eccellente successore dello stesso Abu Mazen.
Ma la spina più scabrosa per al Fatah è l’auto candidatura di Marwan Barghouti, detenuto in Israele per la condanna a ben 5 ergastoli in quanto leader delle Brigate dei Martiri di al Aqsa, di al Fatah, responsabili di gran parte degli attentati della seconda Intifada del 2000-2005 (1062 israeliani uccisi).
È questa una candidatura scabrosa, ma molto popolare nei Territori, scandalosa non solo per Israele ma anche per la comunità internazionale che vede buona parte della dirigenza di al Fatah decisa al boicottaggio con cavilli burocratici. Certo è che se Bargouthi si presentasse, potrebbe essere il più votato nella lista, creando non pochi problemi ai vari raìs del partito.