La fiera della menzogna. Perché non ha senso attendersi una Bolognina o una Fiuggi del grillismo
Ha qualcosa di letteralmente spettacolare l’intervista con cui ieri Di Maio su Repubblica ha annunciato la svolta grillina, cioè la trasformazione del VaffaParty in una forza liberale e moderata, che scioglie le angosce dell’Italexit nel sogno degli Stati Uniti d’Europa e che rinnega l’assemblearismo dell’uno-vale-uno in una sorta di presidenzialismo paternalista, affidato alle cure amorevoli di Giuseppe Conte.
La cosa spettacolare è che la svolta non appare come l’ennesimo cambio di maschera all’ennesimo cambio di scena, ma Giggino ha l’improntitudine (direbbe oggi) o la faccia da culo (avrebbe detto ieri) di presentarla come il naturale compimento di un percorso travagliato, ma coerente, come una sorta di Gerusalemme politica, in cui il popolo grillino, stanco delle peregrinazioni nel deserto del Palazzo, può finalmente riconoscere la propria terra promessa.
La politica contemporanea ha vissuto in Italia repentine svolte anche su altri versanti del panorama populo-sovranista e degli attigui territori almeno nominalmente democratici.
Berlusconi annegò, ormai vent’anni fa, il liberal-liberismo fiducioso delle origini in un tremontismo arcigno e antimercatista, ponendosi irreversibilmente a rimorchio del proto-populismo di destra, che successivamente ha sbancato nell’elettorato del Cavaliere, ora ridotto a una periferia moderata della Visegrad italiana.
Salvini poco meno di dieci anni fa abbandonò il federalismo secessionista di Bossi, che voleva stare in Europa con la Germania e abbandonare il Sud alla deriva del Mediterraneo, e riconvertì in leghismo in una ideologia nazionale e nazionalista.
Zingaretti, più recentemente, ha preso il Pd del Lingotto, blairizzato sbrigativamente dalla cura Renzi, e l’ha riposizionato lungo una traiettoria neo-berlingueriana, al punto da parlare pubblicamente di «rifondazione del PCI», anziché di «rifondazione del PD», con un lapsus che dice tutto del suo inconscio politico.
Ma tutte queste giravolte, per quanto opportunistiche, danno almeno il senso di muoversi lungo coordinate politiche, di essere espressione di un pensiero e di una strategia che ambisce a diventare (o almeno a presentarsi) come intelligenza e governo della realtà. C’è ancora qualcosa, insomma, di ideologico, nel senso deteriore, ma anche in quello denotativo di un contenuto «ideale», non puramente coincidente e funzionale al potere, cioè al potere come solo pensiero, al potere come sola ideologia.
Il grillismo invece è stato, è e sarà esattamente questo. Non il passaggio da una cosa a un’altra, ma da un niente a un niente diversamente designato, proprio perché il grillismo nasce come forma di psicopatologia e di alienazione politica: un fenomeno sociale che consiste nell’oblio del politico come categoria della teoria e dell’azione e nella sua sostituzione con una macchina goebbelsiana di emozioni elementari: la paura, la frustrazione, il disprezzo, l’invidia, la rabbia…
Il grillismo può essere solo potere – potere disprezzato, desiderato, esercitato, estorto, conteso… – proprio perché non ha alcuna dimensione propriamente politica.
Ci si sbaglierebbe ad attendere una Bolognina o una Fiuggi del grillismo, una consacrazione dolorosa e magari tardiva di un cambio di paradigma imposto dalla storia a coscienze riluttanti, ma consapevoli del corso degli eventi.
I comunisti dopo la Bolognina, piangevano. I post-fascisti lo stesso, dopo Fiuggi. Di Maio non ci si può aspettare di vederlo mai abbandonare il ghigno da brigante che, dai referendum per l’uscita dall’euro, come enfant prodige del grillismo alfabetizzato, alle passerelle coi gilets jaune, da ministro che aveva abolito la povertà, lo ha accompagnato fino ai consessi internazionali a fare il verso ad Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli.
Alla Bolognina e a Fiuggi c’era, in ogni caso, un corpo a corpo con la verità. Lungo la direttrice Pomigliano – Volturara Appula c’è la solita fiera della menzogna. La stessa di sempre.