Il televisore Grundig con cassa in mogano massiccio che entrò in casa mia nel 1956 mi avrebbe aperto gli occhi su tante cose, ma su due in particolare: lo stile sovietico e lo stile austriaco. A novembre, la rivoluzione ungherese repressa nel sangue, le immagini dei carri armati russi nelle vie di Budapest: la realtà del comunismo in diretta. Ma ben prima, tra gennaio e febbraio, la rivoluzione incruenta dello sci, con le Olimpiadi di Cortina e la leggenda di Toni Sailer. Non posso fare a meno di pensarci oggi che si aprono questi malinconici Mondiali senza pubblico, in attesa dei Giochi (si spera senza virus) del 2026.
«Una Olimpia in technicolor» è quella che descrive il 26 gennaio 1956 l’inviato del Corriere d’informazione Alberto Cavallari (futuro direttore di via Solferino): «Una grande prima (…) lo Stadio del Ghiaccio sembrava la Scala illuminata da un vivo sole quasi perpendicolare». I pochi fortunati che all’epoca possiedono un apparecchio tv non sono in grado di apprezzare questa «apoteosi di colori»: il tubo catodico proietta solo immagini in bianco e nero a volte un po’ sgranate, ci vuole uno sforzo di immaginazione per distinguere, nell’immenso corteo della cerimonia di apertura, i berretti rossi degli atleti americani, i maglioni blu scuro dei francesi, le divise azzurre degli italiani, ma anche i visoni e i castori delle signore in tribuna, le giacche a vento sgargianti che contrastano con il cappotto grigio del presidente Giovanni Gronchi.
Ma chissenefrega dei colori, sono tutti incollati ai teleschermi a guardare sfilare le trentadue delegazioni con le loro bandiere, ottocentoventi paia di scarponi, chi con gli sci in spalla, chi coi pattini ai piedi, e che impressione vedere i volti sorridenti dei russi, invitati per la prima volta, e quelli degli ungheresi che di lì a poco, proprio grazie ai russi, smetteranno di sorridere.
I VII giochi olimpici invernali sono i primi ospitati in Italia – un’Italia appena uscita dalla guerra e alla vigilia del miracolo economico – e anche i primi trasmessi in diretta tv, con le voci di Nando Martellini e Tito Stagno. Da quel momento, Cortina d’Ampezzo assurge al rango di stazione sciistica internazionale, e gli italiani di ogni ceto, inclusi quelli che non hanno mai visto la neve, scoprono il fascino dello sci.
Nascono nuovi idoli. Il ragazzo d’oro di Kitzbühel Toni Sailer, detto “il fulmine nero” per la tuta all black, dominatore in discesa, gigante e speciale, è il più grande di tutti. Sulla libera della Tofana, novecento metri di dislivello, quindici porte per quasi tre chilometri e mezzo di pista, dà tre secondi e mezzo allo svizzero Raymond Fellay, medaglia d’argento, quattro al connazionale Molterer e ben otto al primo degli italiani, Gino Burrini, sesto all’arrivo.
Si favoleggia che sia sceso con gli scarponi slacciati per aderire meglio al terreno, senza spigolare nei mezzacosta. Una bufala, probabilmente. Di sicuro c’è che prima della partenza gli si è rotto il legaccio di cuoio di un attacco, subito riparato alla meglio, e che nello sprint finale si è pure staccata la soletta di uno sci. Ma è soprattutto nello slalom che si impone lo “stil novo” di Toni, un ribaltamento completo del modo di sciare, con il peso sullo sci interno, la spalla corrispondente in avanti e il braccio opposto all’indietro, mentre prima si faceva perno sullo sci esterno e si ruotava il busto quasi avvitandosi nelle curve.
Nella storia dello sci c’è un prima e un dopo Sailer. Copernico era niente in confronto. Da quel momento tutti noi ci convertimmo, o tentammo di convertirci allo stile ”austriaco”, scodinzolando e sbracciandoci sui pendii in pose statuarie. Se non sciavi austriaco eri uno sfigato senza speranza.
Ma Cortina ’56 non è solo Sailer. Anche la nostra Giuliana Minuzzo, prima donna nella storia a fare il giuramento olimpico, i diavoli del bob Monti e Alverà e gli altri protagonisti del circo bianco diventano popolari come il Mike Bongiorno di “Lascia o raddoppia?“ o come i divi del cinema, le Sophia Loren e i Raf Vallone che nei giorni delle Olimpiadi aggiungono un tocco di glamour alla ribalta ampezzana.
E pazienza che gli azzurri debbano contentarsi di tre medaglie, una d’oro e due d’argento, tutte per il bob, contro le sedici dell’Unione sovietica (uno smacco per gli americani che si fermano a sette, in piena Guerra fredda), le undici dell’Austria, le dieci della Svezia. Pazienza che il grande Zeno Colò, trionfatore della discesa libera a Oslo nel ’52 e dei mondiali di Aspen due anni prima, sia stato relegato nelle retrovie per avere tradito la purezza dello spirito olimpico prestando il suo nome (scandalo!) a una marca di scarponi: si deve contentare di fare il tedoforo giù dalla pista delle Tofane, passando poi la fiaccola al fondista Enrico Colli. Un vulnus che offende non solo il campione, e che sarà oggetto di interpellanze parlamentari.
La vera vittoria è il successo della prima Olimpiade made in Italy, le migliaia di spettatori (fino a 30 mila per le gare più spettacolari) gli alberghi pieni di gente di ogni Paese, l’orgoglio degli alpini che battono le piste coi piedi e il fatto che proprio grazie ai Giochi cortinesi l’idea dello scivolare, sul ghiaccio o sulla neve, abbia messo radici nel nostro immaginario. I sei miliardi di lire spesi per l’evento all’epoca fecero impressione, ma sono niente in confronto a Olimpiadi più recenti, e a conti fatti non si possono considerare uno spreco inutile, visti i 231 milioni incassati per i biglietti, i 27 milioni di francobolli emessi per l’occasione, l’enorme impatto del film “Vertigine Bianca” girato dall’Istituto Luce. E soprattutto le nuove strutture, funivie, seggiovie, stadio del ghiaccio, al servizio di turisti sempre più esigenti.
Certo, è anche vero che dopo il ’56 il prezzo di un metro quadro a Cortina schizza alle stelle, e quello che era un borgo alpino perde via via la sua aura, diventa l’epicentro della mondanità e la scenografia ideale dei Cinepanettoni. Ma questa è un’altra storia.