Alla fine l’Apocalisse è arrivata, ma non è quella che avevamo temuto o immaginato. Ci aspettavamo di essere inceneriti dalle armi atomiche, rasi al suolo dalla Jihad, inondati o arrostiti dalle conseguenze del riscaldamento globale. E invece.
Le prime immagini di questo volume risalgono al novembre 2019: acqua alta a Venezia, ragazzi in piazza per i Fridays for Future. La paura è il clima fuori controllo.
Nella galleria di marzo si vede il Papa che prega davanti a una piazza San Pietro deserta e una colonna di mezzi militari che trasportano bare in una strada di Bergamo. Appena quattro mesi dopo, sembra passato un millennio.
Il “cigno nero”, l’evento imprevedibile di cui parla Ilaria Capua nel suo saggio introduttivo ha scompaginato tutto, comprese le nostre paure: un virus ignoto, una sferetta con una corona di aculei sbucata chissà come da un mercato cinese è schizzata all’assalto del pianeta, riuscendo in poche settimane a infettare milioni di persone, a ingolfare terapie intensive e cimiteri e a mettere in ginocchio la civiltà tecnologica più avanzata della storia umana. In realtà, tanto nero il cigno non è: da anni i virologi mettevano in guardia contro il rischio di una pandemia, e tutti li trattavano come fastidiose cassandre.
Sicché, a un secolo dall’influenza spagnola, che tra il 1918 e il ’20 fece più vittime della prima guerra mondiale, un’altra infezione letale ci ha colto alla sprovvista.
La differenza è che a quei tempi i virus viaggiavano in treno o in nave, e ci mettevano due anni a fare il giro del globo. Oggi volano in business, e si spostano da un continente all’altro in poche ore. Viviamo in un mondo interconnesso, dove il batter d’ali di un pipistrello a Wuhan può provocare un tornado nella Bergamasca. Ma oggi come allora, nessuno è preparato ad affrontare il mostro.
A cominciare dai leader mondiali, da Trump a Bolsonaro, che hanno sottovalutato il pericolo o lo hanno addirittura negato, salvo poi cadere loro stessi vittime del contagio, nel caso di Boris Johnson in modo così grave da indurlo a cambiare bruscamente rotta.
Il governo italiano è stato tra i primi a scegliere la linea dura e a decretare la chiusura totale di ogni attività, purtroppo quando la mitica sanità lombarda era già al collasso. Abbiamo imparato presto, sulla nostra pelle, il significato della parola lockdown. E anche della sigla Dpcm.
Da marzo in poi la nostra estenuante quarantena è stata scandita dalle conferenze stampa di Giuseppe Conte e dai bollettini della protezione civile. Ma anche dalle sirene delle ambulanze e dai necrologi di persone care o conosciute.
Abbiamo sperimentato la morte di massa che, avendo la fortuna di non essere nati in Siria o in Afghanistan, ci era sconosciuta, relegata nei racconti dei nostri genitori e dei nostri nonni, quando si moriva tutti insieme nelle trincee o sotto i bombardamenti – è vero che il cancro o l’infarto stroncano molte più vite, ma non con questa agghiacciante simultaneità. Abbiamo dovuto rinunciare agli abbracci, alle carezze, alle strette di mano, ai matrimoni e ai funerali. Ci siamo rassegnati alle mascherine e al distanziamento, lavoro a distanza, scuola a distanza, perfino aperitivi e feste a distanza.
Abbiamo cercato di combattere l’angoscia e la claustrofobia cantando dai balconi Volare e Bella Ciao. Ma non siamo diventati migliori o più solidali. La mannaia del virus ha inferto tagli sanguinosi al tessuto sociale, ha esasperato le disparità di genere, le diseguaglianze tra garantiti e non garantiti, tra impiego pubblico e privato, tra dipendenti e autonomi. Siamo partiti dagli hashtag #tuttoandràbene #iorestoacasa e dagli applausi ai medici e agli infermieri, per finire con le manifestazioni dei no mask, la rabbia dei negozianti e i saccheggi nelle città.
Orgogliosi di come abbiamo reagito alla prima ondata, un po’ meno di come non abbiano saputo prevenire la seconda, buttando via tempo prezioso tra discoteche, campagne elettorali e disquisizioni ideologiche sul Mes e trascurando tracciamenti, tamponi e investimenti nella medicina territoriale, in un imbarazzante scaricabarile tra Stato e regioni.
Qualcosa, comunque, il virus ci ha insegnato: per esempio che non c’è differenza tra il pianeta e il cortile di casa, che le risposte alla crisi vanno cercate insieme, che la globalizzazione è un problema ma anche la soluzione, a patto di diventare più rispettosa dell’ambiente (è dal saccheggio degli ecosistemi che scaturiscono le epidemie).
Il mercato e le nuove tecnologie hanno mostrato la loro vulnerabilità, ma il vaccino che ci salverà non potrà che uscire dai laboratori delle Big Pharma. E senza l’Europa nessuno può illudersi di ritrovare il sentiero della crescita.
Non c’è stato per fortuna solo il Covid, in questo spietato 2020. Il nostro Libro dell’anno tratta anche di ghiacciai e di Raffaello, di Beethoven e di fusione nucleare, di opposizione in Bielorussia e di Woody Allen. E naturalmente, delle tormentate elezioni americane, che malgrado la grande vittoria di Joe Biden & Kamala Harris (primo vicepresidente donna della storia), lasciano un paese diviso e intossicato dall’odio. Ma che potrebbero forse preludere alla fine di un’altra epidemia: quella del populismo.
prefazione a “Il libro dell’anno 2020”, Istituto Enciclopedia Italiana Treccani, 2020, 616 pagine, 29 euro