A Milano abito a pochi isolati da via Gian Giacomo Mora e al luogo dove sorgeva la casa del barbiere-untore, poi rasa al suolo e sostituita dalla “colonna infame” raccontata da Alessandro Manzoni: adesso c’è un condominio moderno, e al posto della colonna la scultura di un artista contemporaneo. Ma tra i prigionieri del Covid che passeggiano imbavagliati in Porta Ticinese, quanti ricordano quel processo vergognoso e l’orrendo supplizio che Mora e il suo complice, Guglielmo Piazza, subirono quattro secoli fa? I due, sentenziò il Capitano di Giustizia, andavano in giro a ungere i muri e a diffondere il contagio. In pratica, erano stati loro a scatenare la peste in città.
Un’accusa assurda, ovviamente, la peste non si trasmetteva di casa in casa perché qualcuno spalmava un micidiale intruglio sugli stipiti. Ma è facile, adesso, fare gli innocentisti. Fossi vissuto nel Seicento, magari sarei andato da Gian Giacomo a tagliarmi i capelli, e non mi sarei probabilmente unito agli schiamazzi dei suoi accusatori.
Quanto a difenderlo dal linciaggio e dalle torture, temo che non ne avrei avuto il coraggio. Ora però vengo a scoprire, dalle pagine dei Racconti contagiosi di Siegmund Ginzberg (in uscita giovedì da Feltrinelli), che perfino tra i miei contemporanei c’è qualcuno che ha insinuato dei dubbi sull’innocenza del povero Mora. Franco Cordero, per esempio, nel suo La fabbrica della peste (1984, confesso che all’epoca non lo avevo letto) assolve i giudici seicenteschi che, a suo avviso, erano «onesti, e davvero convinti del complotto».
«Gli untori – riassume Ginzberg – non erano untori. Ma non erano neanche stinchi di santo. Guazzavano nella palude della criminalità diffusa di una grande metropoli. Si erano contraddetti e accusati a vicenda (ma questo succede nelle migliori famiglie: l’avevano fatto anche i vecchi bolscevichi nei processi di Mosca degli anni Trenta)… Nella Milano della peste fiorivano gli affari loschi, c’era da guadagnare parecchio col traffico di rimedi ciarlataneschi, e anche con la diffusione della peste, magari per conservare il posto di lavoro, come succede coi pompieri che appiccano incendi».
In quegli anni, poi, la Lombardia era in guerra, per cui gli untori non potevano che essere manovrati da qualche potenza straniera. Scrive Ginzberg: «Correvano le voci più disparate: che a capo della grande cospirazione ci fosse il principe di Condé, no il cardinale Richelieu, no il Wallenstein, comandante supremo delle forze imperiali, no gli eretici ginevrini, no il duca di Savoia che avrebbe pagato e sguinzagliato almeno una settantina di “untori piemontesi”, attentatori suicidi di quei tempi.
Non manca il “grande vecchio”, un’altrimenti innominata “persona grande” che reggerebbe le fila di tutto. Ci fu addirittura chi sosteneva che i francesi si fossero messi d’accordo con i loro nemici spagnoli, allora padroni di Milano, per “annientare tutta l’Italia”. Come si vede, le conspiracy theories più bizzarre non sono nate con l’11 settembre, e nemmeno le più recenti campagne tipo quelle contro George Soros o Bill Gates, accusato di voler profittare del Covid, anzi di averlo inventato, per promuovere i suoi vaccini. Non mancano nella peste di Milano accuse contro alcuni banchieri, che finanzierebbero gli untori per fare confusione, evitare la bancarotta e arricchirsi. Vengono perquisiti i loro uffici, loro stessi vengono accusati, ma se la cavano versando ingenti cauzioni».
Di fronte alle grandi epidemie, negazionismo e cospirazionismo, ricorda Ginzberg, si rincorrono e si alimentano a vicenda, anche a costo di contraddirsi. «La prima reazione è negare che la pandemia ci sia. Negano le autorità. Nega la gente, negano quel che chiamano “il popolo”… Quando il contagio ormai già imperversa, non si può più negare, si cerca e si inventa il colpevole, si passa ai pogrom, alla caccia alle streghe e all’untore». O alle prediche di padre Fanzaga su Radio Maria contro il «progetto criminale portato avanti dalle élite mondiali per ridurci tutti a zombie». Che poi, curiosamente, a guidare la crociata sono quasi sempre gli stessi che negano o sminuiscono il “Coviddi”. Quale mefistofelico genio del male si metterebbe a fabbricare e spargere un virus che non esiste, o che è clinicamente morto, o che non fa più male di un’influenza? Sarebbe come avvelenare i pozzi con la camomilla o col bicarbonato.
Quando al liceo, negli anni Sessanta, dovevamo imparare a memoria i Promessi sposi, la Lombardia di Don Rodrigo ci appariva come una litografia ingiallita. Già faticavamo a immedesimarci con l’Italia fascista dei nostri genitori o con gli sfollati per i bombardamenti, figurarsi il Lazzaretto, gli untori, i monatti e le carrette piene di cadaveri: erano cose che non ci riguardavano, consegnate alle tenebre di un’era Giurassica che non sarebbe tornata mai più. Noi avevamo la penicillina e il vaccino antipolio, chi ci poteva ammazzare. Anche il Tucidide della pestilenza di Atene, o l’epidemia che fa da sfondo al Decameron di Boccaccio, oppure il Camus della Peste, se non ci lasciavano indifferenti, ci incuriosivano, magari, ma senza coinvolgerci più di tanto.
Ginzberg ci invita a rileggerli con gli occhi di oggi, sub specie coronavirus. Attingendo a quei classici e a molti altri, da Ovidio a Defoe, da Shakespeare a Virginia Woolf, ha messo insieme un’affascinante antologia, una sorta di livre de chevet da sfogliare nelle notti di coprifuoco. Magari non ci terrà allegri, ma ci farà sentire meno soli e anche meno inediti e meno perseguitati dalla sfiga dell’anno bisestile. Perché tutto è già accaduto. Quelle pagine parlano di noi. Dei nostri lutti e delle nostre paranoie, della movida proibita, degli abbracci negati, dei commissari e dei decreti, delle quarantene, delle mani da lavare con l’aceto, delle autocertificazioni e dei ciarlatani che promettono cure miracolose. Perfino degli assalti alle ambulanze.
L’odio (non il plauso) per i medici è una costante di tutte le pandemie. Ginzberg rivela che nell’Inghilterra dell’800, ai tempi del colera, del tifo e del vaiolo, i sanitari sono accusati di sfruttare la malattia, o addirittura di averla inventata a bella posta per “assassinare i poveracci”. Folle inferocite assediano ospedali e obitori per impedire che i cadaveri dei defunti siano sottoposti ad autopsia, formano picchetti per evitare che gli ammalati vengano rimossi dalle loro abitazioni e portati in ospedale. Accusano i medici di uccidere i pazienti per esercitarsi nei loro studi, o per vendere i cadaveri alle scuole di anatomia.
Ma la caccia agli untori ha avuto anche un altro bersaglio ricorrente: gli ebrei. Massacrati durante la peste nera con l’accusa di infettare le acque, sotto il nazismo diventarono essi stessi il simbolo del contagio. «Judenfieber, febbre giudaica veniva chiamato il tifo, e forse non è un caso che per sterminarli poi usarono il Zyklon B, che originariamente doveva servire a eliminare i pidocchi, portatori di tifo». C’è anche chi ha provato a rovesciare lo stigma a fin di bene.
Racconta Ginzberg: «Quando nell’ottobre 1943 i nazisti occupavano Roma ed erano già in corso le retate nel Ghetto, un medico dell’ospedale Fatebenefratelli, sull’antistante Isola Tiberina, Adriano Ossicini, e il suo primario Giovanni Borromeo, con la complicità anche di altri operatori sanitari, inventarono il reparto per gli ammalati del “morbo di K”. K stava per l’iniziale di Kesselring, il comandante supremo delle armate tedesche in Italia, o forse per Kappler, il responsabile della Gestapo a Roma. I ricoverati erano ebrei e altri ricercati in fuga. Funzionò. I tedeschi si guardarono bene dall’ispezionare il reparto dove erano ricoverati i degenti che le false cartelle cliniche indicavano come colpiti da quella malattia “contagiosissima”».