Indecisi a tuttoCari Democratici, c’era proprio bisogno di aspettare Draghi?

La nascita del governo M5Silvio dimostra che i grillini, pur di non tornare al voto, avrebbero votato qualsiasi cosa. Il Pd poteva approfittarne prima, invece di cedere a tutte le loro richieste, dallo sfregio della prescrizione al taglio dei parlamentari (per dirne due)

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La nascita del governo Draghi ha riaperto il dibattito sulla natura del centrosinistra, dell’alleanza con il Movimento 5 stelle e del ruolo di Giuseppe Conte. In parole povere, si tratta di decidere se il centrosinistra debba essere semplicemente l’unione di tutte le forze necessarie a portare Dario Franceschini al ministero della Cultura o se debba svolgere, oltre a quella importantissima e benemerita funzione, anche qualche altro compito, che non riguardi solo la collocazione di questo o quel dirigente.
Se la coalizione è infatti nient’altro che una scala, e come tale deve semplicemente portare le persone da giù a su, l’unica cosa che conta, evidentemente, è che sia grande e solida abbastanza. E in tal caso non si vede perché non dovrebbe comprendere anche il partito che ha inaugurato in Italia la guerra alle ong, votato i decreti sicurezza di Matteo Salvini (proponendo emendamenti per incattivirli ulteriormente) e organizzato campagne di odio contro gli stessi democratici (come quella, indimenticabile, su Bibbiano). Tanto meno si capirebbe per quale motivo a guidarla non dovrebbe essere l’uomo che quei provvedimenti ha varato, da capo del governo, dopo avere in più occasioni rivendicato pubblicamente l’identità populista e sovranista del suo esecutivo, del suo partito e di se stesso, per poi fare e rivendicare l’esatto opposto, una volta cambiati governo e maggioranza.
In caso contrario – se la coalizione è concepita cioè come qualcosa che abbia anche solo minimamente a che fare con questioni di merito e di principio, politiche e programmatiche – il problema, per ragioni che dovrebbero essere ovvie, si complica un po’.
In teoria, bisognerebbe semplicemente chiarire a se stessi e al Paese se il programma del governo gialloverde, che è stato anche, purtroppo, il novantacinque per cento del programma del governo giallorosso, in tema di giustizia, diritti, costituzione, politica industriale, pensioni, finanza pubblica, sia o meno compatibile con i principi, le idee e gli interessi sociali di riferimento dei partiti che oggi rappresentano la sinistra italiana (qualunque accezione si dia all’espressione).
Il guaio è che una simile discussione è costantemente impedita e deformata da esigenze tattiche, vere o presunte, in nome delle quali si tende sempre a presentare le decisioni prese come obbligate. Si tratta però di un gioco delle tre carte, e per verificarlo basta un breve riassunto delle puntate precedenti.
Nell’ultimo anno e mezzo si sono confrontate a sinistra due scuole di pensiero (diciamo così). La prima, largamente maggioritaria, sosteneva che il cedimento ai Cinquestelle su tutte le principali questioni politiche e di principio (dalla prescrizione al taglio dei parlamentari, per citarne solo due) fosse inevitabile, una volta deciso di fare un governo con loro pur di non consegnare i famosi «pieni poteri» a Salvini.
L’altra diceva l’esatto contrario, insinuando che il cedimento alle posizioni populiste più retrive non fosse una necessità ma una scelta consapevole, dettata anzitutto dall’incapacità di farsi valere, vuoi per insipienza (per gli amici: pippaggine) vuoi per scarsa convinzione nei propri principi e ideali.
In estrema sintesi, la tesi di questa seconda scuola di pensiero era che il problema fosse proprio il Pd, la sua linea politica e il suo gruppo dirigente, non i Cinquestelle, nella convinzione che ormai, pur di non tornare alle elezioni, i grillini avrebbero votato qualunque cosa, anche un governo con Renato Brunetta e Mara Carfagna.
Il lettore ha oggi tutti gli elementi per giudicare chi avesse ragione.

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