Tratto dall’Accademia della Crusca
Diverse lettrici e diversi lettori hanno chiesto notizie sulla parola chiama, usata in Parlamento in riferimento all’appello nominale di deputate e deputati e senatori e senatrici.
Risposta
La questione presenta due aspetti: la formazione del sostantivo chiama, e il suo uso nel lessico parlamentare italiano. Tratteremo le due questioni nell’ordine.
Chiama è un nome d’azione deverbale, derivato per conversione dal verbo chiamare. Il fatto che questo nome appaia strano ad alcuni (c’è per esempio chi chiede perché non si usa invece chiamata) si spiega: infatti nell’italiano di oggi la formazione di nomi deverbali d’azione per conversione, cioè senza l’aggiunta di un suffisso derivazionale, produce normalmente sostantivi maschili, e non femminili. La formazione per conversione di nomi d’azione maschili è abbastanza produttiva: ad esempio, è stato coniato il nome affronto con il senso di ‘atto dell’affrontare’ nonostante esistesse già affronto nel senso di ‘offesa’: le due voci derivano entrambe dal verbo affrontare, in due sue diverse accezioni, come è ben spiegato qui. Secondo Thornton (2004: p. 516) si hanno oltre 800 nomi d’azione maschili in -o formati per conversione. I nomi d’azione femminili per conversione, invece, sono “un tipo di derivazione popolare che è stato senz’altro produttivo nei primi secoli di vita della lingua italiana, e lo è forse ancora, seppure molto marginalmente, in linguaggi settoriali o in stili molto colloquiali. Appartengono a questo tipo circa 150 parole, tra cui alcuni nomi d’azione appartenenti al vocabolario di base e di attestazione antica, quali sosta, consegna, conquista, attestati fin dalla prima metà del XIV secolo, e altri oggi in disuso o relegati ad usi settoriali, o usati solo in locuzioni cristallizzate, quali aita, bada, cerca, chiama, monta, muda, piova, travalca e traina” (Thornton 2004: pp. 517-518). Come si vede, chiama è citato tra i nomi “relegati ad usi settoriali”, come appunto il lessico parlamentare. L’impressione di estraneità che la voce ha suscitato in diverse lettrici e lettori si spiega per il fatto che la formazione di nuovi deverbali d’azione convertiti in -a non è oggi produttiva, e chiama non appartiene neppure alle poche voci antiche ancora di uso comune, come sosta, consegna, ecc.
Per quanto riguarda il significato, gli ambiti d’uso e l’epoca di prima attestazione di chiama, alcune indicazioni ci vengono dai dizionari. Il GDLI (s.v.) indica come prima accezione del termine chiama “appello per nome, per lo più secondo l’ordine alfabetico, delle persone che si dovrebbero trovare in un luogo determinato, per accertarne la presenza” e come seconda accezione “verifica, per appello nominale, del numero legale per la validità di una votazione o di una seduta del Parlamento o di un’altra assemblea”. Chiama è, in sostanza, sinonimo di appello (o appello nominale). Il GRADIT dà come data di prima attestazione del lemma chiama il 1661 e ne restringe l’uso attuale al solito ambito parlamentare, l’unico – a quanto ci consta – in cui il termine continua ad essere utilizzato. Non è stato sempre così: gli esempi che corredano il lemma nel Dizionario della lingua italiana di Tommaseo, stampato a partire dal 1865, si riferiscono agli usi in ambito militare e, soprattutto, scolastico: “Atto del chiamare per ordine a uno a uno persone, a vedere se ci siano o se manchino. Il professore fa in iscuola la chiama degli scolari. – Chiama de’ soldati. Di questi anche Chiamata, segnatam. se in rassegna solenne; degli scolari sempre Chiama nell’uso.
L’accezione del termine appello che il GRADIT registra come prima (“chiamata spec. in ordine alfabetico dei componenti di un gruppo per verificarne la presenza”), e che viene marcata come di alto uso, ossia di elevata frequenza, nel Dizionario del Tommaseo è solo ottava (“Il così detto Appello dei Deputati o degli operai per riconoscere se siano presenti, può come quel degli scolari dirsi Chiama. E Appello nominale torna inelegante insieme e inutile, dacchè chiamasi sempre a nome”). Non solo: lo stesso Tommaseo, alla voce contrappello chiosa che “più it[aliano] sarebbe Controchiama”.
Di fatto, la parola appello, nell’accezione sinonimica di chiama, e, rispetto a quest’ultima, di più antica attestazione (av. 1306, secondo il GRADIT), ha fatto il suo ingresso in italiano nel lessico militare sotto l’influsso del francese appel (GDLI, s.v.).
Sottolinea l’origine “straniera” del termine appello anche Giuseppe Rigutini nel 1886, censendo i neologismi buoni e cattivi, ma ricorda che “Appello per ‘Chiama’ è registrato dalla Nuova Crusca con un es. del Piananti” e che “sebbene sia in questo senso il fr. appel, pure nel linguaggio militare è ormai accettato, come anche l’appello nominale (fr. appel nominal) nel linguaggio dei parlamenti, quantunque l’aggiunta nominale non aggiunga nulla, non potendosi fare l’appello senza chiamare a nome le persone convenute. La voce Chiama è rimasta oggi alle scuole”.
Non stupisce dunque che nei regolamenti della Camera e del Senato subalpini (1848), dove era consentito parlare francese, non ricorra il termine chiama, bensì appello, come pure nei resoconti sommari delle sedute parlamentari: ad esempio, nella tornata dell’8 giugno 1848, si riporta che “Il Presidente fa procedere allo squittinio [scil. scrutinio] segreto con appello nominale”.
Anche il primo regolamento della Camera del Regno d’Italia, approvato nel 1863, che riprende in gran parte il testo del 1848, parla, in diversi articoli, di appello nominale, e non di chiama, termine che fa la sua prima comparsa nel regolamento della Camera dei deputati del 1868, e sopravvive a tutte le numerose modifiche regolamentari succedutesi del 1888 al 1966, fino alla riforma del 1971, quando si torna ad usare il termine appello. Il Senato del Regno d’Italia utilizza nel primo regolamento post-unitario (1861) la locuzione appello nominale ad alta voce e poi il semplice appello, che ricorre anche nel regolamento attuale. Il lessema chiama sopravvive unicamente nell’articolo del regolamento del Senato che disciplina la verifica del numero legale o del numero dei presenti (art. 118, terzo comma: “Quando si debba procedere alla verificazione del numero legale o all’accertamento del numero dei presenti ai sensi dell’articolo 108, il Presidente ordina la chiama”), oggi accertato tramite dispositivi elettronici.
Nei dibattiti parlamentari, tuttavia, sia alla Camera sia al Senato, si utilizza, a partire almeno dalle ultime decadi del 1800, il termine chiama, come attestano i resoconti sommari e stenografici. In genere chiama si riferisce all’atto concreto di fare l’appello, e viene utilizzato soprattutto nella cosiddetta fisionomia dei resoconti, ossia in quelle parti riportate in corsivo e tra parentesi che si riferiscono ai fatti e agli atti che si verificano nel corso della seduta. L’espressione appello nominale indica invece il tipo di votazione, come appare chiaramente dall’esempio che segue, ricavato dal resoconto della tornata del 29 maggio 1880:
PRESIDENTE. Su questo articolo vi sono due domande di votazione nominale: una da questa parte (Sinistra) […]; un’altra da quest’altra parte (Destra) […]. Si faccia quindi la chiama.
Voci. Spieghi! spieghi come si deve votare.
PRESIDENTE. Coloro i quali credono che l’articolo debba essere approvato, risponderanno sì; coloro i quali credono che l’articolo non debba essere approvato risponderanno no.
COMPANS. Domando di parlare per fare una dichiarazione. Voci a sinistra e al centro. No! no! Non si può! Siamo in votazione (Rumori vivìssimi) (Il segretario Mariotti fa la chiama).
Attualmente, la votazione nominale per appello è prevista solo per la fiducia o sfiducia al governo, in cui i parlamentari sono uno ad uno chiamati ad esprimere il proprio voto con un sì, con un no o con mi astengo, dopo che la Presidenza avrà specificato il significato di queste espressioni.
Perché si usa ancora oggi un termine desueto come chiama e non lo si sostituisce definitivamente con il più comune appello? Perché il linguaggio parlamentare, come quello giuridico, cui è affine per il ruolo che il Parlamento occupa nella nostra architettura costituzionale, è geloso della propria tradizione, e mostra diversi tratti conservativi dal punto di vista lessicale. A questo contribuisce il fatto che, per la redazione dei resoconti, gli stenografi parlamentari si avvalgono di un formulario, ossia di una raccolta di espressioni che contrassegnano, in modo uniforme, per quanto possibile, le diverse fasi procedurali delle sedute. Con gli opportuni adeguamenti alle modifiche regolamentari, il formulario, passando da una legislatura all’altra, contribuisce al mantenimento in vita di alcune parole e locuzioni.