E dunque, come sarà la prossima campagna elettorale senza poter dire: «Votate noi se no vince il demonio del Papeete», «Votate noi se no vincono gli gnomi di Bruxelles»?
Cosa racconterà agli italiani la sinistra orfana del Nemico Principale, ma anche la destra privata dei Belzebù del Piano Kalergi, di Soros, delle pluto-giudo-etc che uccidono le nazioni? Ecco, dietro i mugugni per la conversione di Matteo Salvini c’è anche – forse soprattutto – questo problema.
Perché se la Lega si trasforma in una specie di CSU italiana, cioè esce dallo zolfo dell’antieuropeismo per diventare alleabile e compatibile con gli equilibri di sistema, non è solo un problema di ministri. Diventa, in prospettiva, una complicazione politica non da poco sia a livello nazionale sia sui territori.
Prendete le prossime amministrative. Per Roma il nome non è ancora chiaro, forse Andrea Abodi, presidente del Credito Sportivo, persona equilibrata e con un gran curriculum. Per Milano, il Capitano propone Roberto Rasia, manager, consulente nel settore Pmi, comunicatore di successo. Senza poterli inchiodare a uno sponsor barbarico, all’estremismo sovranista, al sospetto fascistoide, come li smontiamo questi?
Sarà difficile. Bisognerà ricominciare a fare il lavoro disprezzato per tanto tempo (ammesso che qualcuno ne sia ancora capace): aggiornare le strategie, le reti di consenso, trovare persone e idee oltre la semplice evocazione di spauracchi.
Sulla Stampa di ieri Giovanni Orsina lo ha detto con gran classe. L’europeismo è stato il principale contenuto della sinistra italiana nella sua ultima fase. Ma «l’europeismo ha bisogno di un nemico per poter prendere una forma un po’ più solida e consistente, di un demone che gli dia una missione».
Ora quel demone potrebbe essere scomparso per sempre, «e la svolta del leader leghista potrebbe favorire la trasformazione dell’intero sistema politico italiano». Sarebbe bello. Diventare un Paese normale, dove l’estremismo è confinato in frange marginali e destra e sinistra competono senza prendersi a picconate, degradando il dibattito pubblico fino ai limiti visti in questi anni: le felpe esortative da una parte, le maglie con la sardina dall’altra, e in mezzo il coté delle tifoserie impazzite.
Il salto di qualità, tuttavia, sarà complicato. Intere filiere politiche, su entrambi i fronti, si sono formate in un contesto ai limiti della tribalità, dove la marcatura del territorio e la provocazione contro il clan avversario costituivano la modalità principale della raccolta del consenso e il primo motivo del successo personale.
Nessuno ha ben presente la differenza che passa tra consegnarsi a un generico moderatismo – categoria che il Paese non ama e non rispetta più – e una competizione politica agguerrita, ma sulla base delle idee. Anche perché le idee si sono fatte, nel tempo, così simili a totem identitari che il solo modo di difenderle è la sciabola del fideistico e dell’irrazionale.
Come si potrebbero altrimenti sostenere (a destra) cose tipo il blocco navale contro i migranti, che poi significherebbe sparargli addosso? E (a sinistra) l’accoglienza indiscriminata delle masse africane, senza limitazioni, in nome del valore di umanità?
Non sono idee, sono fanfaluche da vendere agli elettorati per prendersi i voti col minor sforzo possibile. E ovviamente obbligano a fare a botte ogni giorno, perché diventano «questioni di principio», e sui principi ci si mena.
Vedremo. Il problema è simmetrico su entrambi i fronti, ma più importante a sinistra dove il progetto di costruire una «diga anti-Salvini» insieme con il M5S, per poi giocarsi le Politiche 2022 secondo questo schema, costituisce il cardine della strategia intrapresa con determinazione dai vertici.
Si può tenerla in piedi confidando nel caratteraccio del Capitano, che prima o poi sbotterà, dirà qualcosa di indecente e tornerà a palesare la sua natura di lupo. Ma la speranza di un nuovo Papeete sembra un po’ poco per costruirci intorno un mondo e una speranza di vittoria