Il mercato del lavoro richiede con urgenza lavoratori e professionisti dotati di competenze professionali tecnico-operative. Come risponde il sistema scolastico? Le iscrizioni alle scuole superiori per l’anno scolastico 2021-22 confermano la tendenza degli anni precedenti all’inesorabile aumento della licealizzazione fino al 57%. Solo il 30,3% sceglie gli Istituti Tecnici, l’11,9% gli Istituti Professionali. Nella licealizzazione, i Licei classici arrivano al 6,7%; i Licei scientifici (secondo i tre indirizzi: tradizionale, delle scienze applicate, sportivo) al 26%, poi tutti Licei leggeri. Si chiama mismatch.
La quota di licealizzazione cresce man mano ci si sposta verso il Centro-Sud. Uno dei primi effetti di tali scelte è che a Liceo leggero segue Università leggera. E a Università leggera seguono o lavori precari o disoccupazione pesante.
Perché accade?
La causa immediata è l’ideologia diffusa massicciamente nella società italiana, secondo cui la formazione/istruzione al lavoro è indice di declassamento sociale. Sì, perché il lavoro è fatica, sudore, oppressione, condanna. Il riscatto sociale consiste nell’allontanarsene.
Tutta una corrente di sinistra è ancora succube dell’idea proto-sessantottina che la scuola professionalizzante, cioè legata alla produzione, sia fatalmente subalterna all’organizzazione capitalistica della produzione e del lavoro, perciò destinata a perpetuare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Ovviamente, sono chiamati in causa il liberismo selvaggio e la globalizzazione, anch’essa selvaggia, come recita il comunicato di Sindacale Sisa – Sindacato Indipendente Scuola e Ambiente – che ha proclamato uno sciopero il 1° marzo contro l’allungamento dell’anno scolastico al 30 giugno.
Meglio dunque un Liceo generalista leggero che un Liceo classico/scientifico esigente – ancorché molto alleggerito, oggi – e, ovviamente, molto meglio che un Istituto tecnico o professionale. Di qui la crisi storica dell’istruzione e formazione professionale, di competenza delle Regioni, e del suo doppio statale – l’istruzione professionale di Stato, i famosi Ipsia – che a norma di Costituzione non era neppure prevista, ma che, a causa del rinvio ventennale dell’istituzione delle Regioni e delle urgenze del miracolo economico, fu istituita già dagli anni ’50.
Se pochissime Regioni hanno promosso l’istruzione, la formazione professionale è stata a sua volta licealizzata, cioè sopraffatta da un sacco di materie volte, secondo un buonismo ipocrita, a fornire anche al popolo i rudimenti della cultura alta.
Tuttavia, il pregiudizio odierno delle classi subalterne e della piccola-media borghesia contro l’istruzione tecnica e professionale, al quale gli intellettuali di sinistra hanno da sempre fornito giustificazioni teoriche, invece che darsi da fare per smontarlo, nasce da una storia lontana. Anzi lontanissima.
È la separazione classica tra Otium e Negotium: il primo spetta ai i signori, ai cavalieri, ai preti; il secondo ai servi della gleba, agli artigiani, ai commercianti. I sistemi di istruzione hanno rispecchiato questo schema classista. Che si è mantenuto con la Legge Casati del 1859 e con la Riforma Gentile del 1923: il Liceo per le classi dirigenti liberali, i Tecnici per i quadri intermedi, i Professionali per i quadri bassi.
Tra il 1943 e il 1946 questo schema fu messo radicalmente in discussione dai cattolici, dai laico-azionisti-socialisti, da una parte dei comunisti. I cattolici, muovendo da una teologia del lavoro come realizzazione del disegno creatore di Dio e come vocazione – der Beruf (la professione, in tedesco, ndr) nel luteranesimo e nel calvinismo – proposero con la Commissione Gemelli una nuova piattaforma: centralità della famiglia, sussidiarietà dello Stato, coordinamento tra scuola e lavoro, rafforzamento dell’insegnamento tecnico, orientamento scolastico e professionale, scuola media unica.
I laico-azionisti-socialisti-comunisti, fortemente influenzati dal deweysmo di W. Washburne – capo della Sottocommissione per l’istruzione del Governo Alleato – dal montessorismo e dal pensiero critico-scientifico, facevano saltare il ruolo privilegiato del Liceo classico.
Il più lucido rappresentante del nuovo corso anti-gentiliano era Elio Vittorini, che all’epoca dirigeva la Rivista “Il Politecnico” da Viale Tunisia a Milano. Sosteneva che ogni ragazzo avesse diritto alla pienezza della formazione umanistica, quale che fosse la sua professione finale: liberale, tecnica, solo manuale. Come a dire: hai diritto a conoscere la Metafisica di Aristotele o il De Senectute di Cicerone, senza essere obbligato a studiare il Greco o il Latino. E, naturalmente, hai il diritto/dovere di accedere al sapere tecnico-scientifico. Vittorini la chiamava «istruzione politecnica», un intreccio di ciò che fino ad allora – e fino a oggi – veniva rigorosamente e classisticamente separato.
Lo scontro ideologico che avvenne nell’Aula magna della Sapienza a Roma, durante il V Congresso del Partito comunista italiano, tra il 29 dicembre 1945 e il 6 gennaio 1946, tra Banfi e Elio Vittorini, da una parte, e Concetto Marchesi e Palmiro Togliatti dall’altra, vide soccombere l’istruzione politecnica di Vittorini e stravincere «l’istruzione umanistica» di Concetto Marchesi. Il quale ribadì il primato del Liceo classico, del Latino e del Greco e l’uso del Latino come mannaia per l’accesso agli studi superiori.
Perché ha vinto questa impostazione gentiliano-classista, che veniva dallo Stato liberale e fascista? Perché la Repubblica, uscita dalla Resistenza, mostrò una tale straordinaria continuità con il regime precedente? Perché, le classi dirigenti, vecchie e nuove, di governo e di opposizione, avevano introiettato l’antico schema, contro il quale poco fecero i cattolici, pochissimo i laici, nulla i comunisti. Controprova? La scuola media unica fu votata nel 1962 dal centro-sinistra, con il voto contrario del Partito comunista. La scuola media unica è stata l’unica riforma di sistema. Da allora più nulla.
Nessuna sorpresa che i genitori che aspirano al meglio per i propri figli li indirizzino verso l’otium delle classi superiori. Peccato che di quelle classi manchi loro il capitale cognitivo e, soprattutto, quello relazionale. L’attuale sistema nazionale di educazione/istruzione non è in grado di accompagnare i nostri figli e il Paese nell’economia e nella società della conoscenza.