I dubbi dopo le arringhe
Ieri, probabilmente la penultima giornata di questo impeachment tragico e assurdo, gli avvocati di Donald Trump avevano un solo vero obiettivo: non perdere senatori repubblicani, o perderne il meno possibile. Hanno cercato di riuscirci parlando il meno possibile, ma le loro argomentazioni con supporto audiovisivo (e musichette) sono state stravaganti. Uno degli avvocati, David Schoen, ha accusato I democratici di «avere manipolato prove e montato i video in modo selettivo». Un altro, lo spettacolarmente scarso Bruce Castor, ha difeso la retorica trumpiana ricordando come Trump, il 6 gennaio, aveva minacciato gli oppositori di stroncargli la carriera, e ricordando ai senatori che potrebbe ancora farlo.
Un altro ancora, Michael Van der Veen, specializzato in anti-infortunistica (quel che a Roma si chiama “un parafangaro”), ha definito l’impeachment «caso di odio politico» nonché «cancel culture costituzionale». Quando le due repubblicane che hanno votato per la costituzionalità dell’impeachment, Susan Collins del Maine e Lisa Murkowski dell’Alaska, hanno chiesto quanto tempo fosse passato tra il momento in cui il presidente è stato informato di quel che succedeva e quello in cui ha invitato i rivoltosi a ritirarsi (dicendogli «I love you, you’re very special»), ha accusato i democratici di non aver investigato.
Altri senatori repubblicani hanno fatto domande che erano provocazioni o modi di far bella figura con la base. E ci sono altri senatori ancora, non i trumpiani, non gli ormai dichiaratamente fascisti. Dopo questo processo breve e doloroso e con conflitti di interesse (i senatori sono stati vittime, ora sono giurati, e alcuni di loro che sono giurati vengono accusati di complicità con gli invasori del Campidoglio) non sono sicuri di poter votare per assolvere Trump.
Ieri la difesa aveva finito le sue argomentazioni ultrarapide, e i media hanno dato notizia di una telefonata con urla e parolacce, il 6 gennaio, tra Trump e il leader di minoranza della Camera Kevin McCarthy; in cui Trump notava come i rivoltosi si preoccupassero del risultato delle elezioni più di McCarthy, e McCarthy gli comunicava che stavano sfondando le finestre del suo ufficio e gridava «con chi cazzo pensi di stare parlando?».
Grazie a questo scambio, una versione drammatica di Scemo e più scemo, e grazie alle imbarazzanti argomentazioni della difesa, i repubblicani calcolavano che tra i cinque e i dieci senatori stavano decidendo se votare oggi per la condanna. Tra loro ci sarebbero i sei che hanno votato per la costituzionalità del processo, più forse Rob Portman dell’Ohio, Richard Burr del North Carolina, e magari, nel fanta-impeachment di questi giorni, Mitch McConnell.
I senatori e l’aberrazione
«Se i repubblicani non difendono il loro diritto a non essere assassinati sul posto di lavoro, cosa possiamo aspettarci che difendano?», si chiedeva su Twitter Molly Jong-Fast, commentatrice newyorkese di sinistra. La domanda non è insensata; e gli stessi democratici, in questo processo, hanno cercato di difendere i repubblicani da se stessi.
Uno dopo l’altro, gli impeachment manager hanno insistito sulle colpe di Trump e le violenze della folla trumpizzata; parlando, appena possibile, bene dei colleghi repubblicani, e pure del vicepresidente Mike Pence. Hanno mostrato video dei dimostranti che urlavano slogan contro il Grand Old Party, dei senatori che scappavano, del cappio pronto per il vicepresidente uscente. «È stato un modo per dire, cari senatori, questa gente non c’entra con voi, rappresenta Donald Trump e la sua influenza distruttiva», ha detto Adam Schiff, che aveva guidato l’altro impeachment.
«Se i repubblicani fossero pronti a staccarsi da Trump, gli impeachment manager gli farebbero un regalo: condannandolo, i repubblicani potrebbero, dopo quattro anni di ricompense per la loro complicità, lavarsi le mani di un leader che molti dicono in privato di schifare. Quelli che vogliono correre per la presidenza si libererebbero di un competitore. E, naturalmente, potrebbero confermare la narrazione secondo la quale l’aberrazione era Trump, e loro non hanno responsabilità per il suo tentativo di rovesciare la democrazia che pretendono di riverire», ha scritto ieri Michelle Goldberg sul New York Times. Però, ammette Goldberg, la base repubblicana simpatizza coi rivoltosi, i suoi elettori, al 66 per cento, crede che la vittoria di Joe Biden sia illegittima. Così, in assenza di miracoli tipo Mr.Smith Goes To Washington, in assenza di coscienza civile e altre cose superate, i senatori repubblicani, tutti tranne cinque o sei o dieci, voteranno per assolvere Trump. E la maggioranza di due terzi che lo condannerebbe non ci sarà (Golberg conclude notando che, se i democratici devono fingere che il partito repubblicano sia redimibile, «il resto di noi non deve»).
L’ammuina di McConnell
Per salvarsi l’anima o comunque qualcosa, ogni tot giorni, da settimane, Mitch McConnell fa uscire articoli sulla sua repulsione per Trump e sul suo segreto desiderio di votare per condannarlo. Finora ha fatto e votato il contrario, due volte, però ha messo in moto una rassicurante ammuina. Ieri, il leader della minoranza ex maggioranza in Senato ha ispirato un sapido trafiletto sul Politico Playbook. In cui si spiega che «McConnell vede in Trump un pericolo per il partito», e non gli parla da dicembre, e lo ha accusato di aver provocato l’assalto al Campidoglio. In più ha 78 anni, nel 2026 ne avrà 84 e forse non si ricandiderà al Senato. In più «l’uomo che i democratici deridono come il definitivo politico calcolatore e avido di potere» ha «come idolo Henry Clay». Senatore del Kentucky come lui, noto come The Great Compromiser per aver cercato di tenere insieme Nord e Sud prima della Guerra civile (poi scoppiò la Guerra civile).
I senatori e gli avvocati
Jason Miller, fedele e pittoresco consigliere di Trump, lo ha ammesso allegramente su Newsmax, nuova rete rispetto alla quale Fox News sembra ragionevole: tre senatori repubblicani, in teoria giurati imparziali nel processo a Trump, sono andati a trovare gli avvocati di Trump e tutta l’impeachment team dell’ex presidente. «È stato un vero onore che siano venuti a trovarci e che ci abbiano dato altre idee», ha detto, e sicuramente le idee erano meglio di quelle dei due avvocati.
I tre senatori, tre trumpiani soliti, Ted Cruz del Texas, Mike Lee dello Utah (convinto in tempi non sospetti che gli Stati Uniti siano una repubblica, non necessariamente una democrazia), Lindsey Graham del South Carolina. La giustificazione dei repubblicani è che così fan tutti, all’ultimo impeachment, dagli avvocati di Trump, era andato l’allora leader della maggioranza in Senato McConnell (e comunque il personaggio più interessante è Jason Miller, accusato di molte cose, anche di aver messo un pillola abortiva nel drink di una spogliarellista del Rachel’s Gentleman’s Club di Orlando, Florida, che lui aveva inavvertitamente messo incinta).
Gli spuntini provocatori di Hawley
Josh Hawley, senatore in sintonia con le istanze degli uomini e delle donne arrivati dall’America profonda ad assaltare il Campidoglio, è laureato a Stanford e Yale e ha insegnato per un anno in una scuola privata molto elitaria di Londra. Dove viene ricordato, riferisce il Guardian, come «distante, di destra, maniaco della politica». Hawley girava con una grossa Bibbia che sottolineava aspettando l’autobus, e il suo era un cristianesimo bellicoso. Era il 2004, e si preparò i popcorn nel microonde della sala professori prima di guardare l’invasione dell’Iraq (gli altri insegnanti lo trovarono una provocazione, stilistica ancor più che politica).
Il giorno della Melania
Non dava notizie, la descrivevano in cerca di casa a Jupiter, trenta chilometri a nord di Palm Beach, si parlava per la miliardesima volta di divorzio. E però – secondo una ricca seppur prevedibile ricostruzione che si trova sul sito della Cnn – Melania Trump non si sarebbe mossa da Mar-a-Lago. Secondo più fonti, la moglie del presidente sotto processo non sta seguendo il processo, o altro. «Va alla spa, pranza, va alla spa (di nuovo) e cena con Donald nel patio. Ogni giorno».
Questo giorno della Marmotta (della Melania) in versione wellness non appaga del tutto – dicono le stesse fonti – l’ex first lady (anche se le fonti dicono che, da first lady, non è che facesse molto di più). Passa molte ore nel centro benessere; cena col marito e i genitori Viktor e Amalija Knavs, trasferiti pure loro a Mar-a-Lago; se la prende, pare, con Trump.
Con lui è «fredda e sgradevole». In queste settimane «ci sono stati momenti di amarezza e rimpianto». Melania – raccontano – accusa il marito di averle rovinato l’immagine con molti scandali e tweet e un tentativo di golpe (poi pare si arrabbi perché Jill Biden piace più di lei, però è un pettegolezzo patetico, e invece si vorrebbe sapere come maltratta Trump).