La banda dei cinqueI repubblicani annoiati dall’impeachment e il silenzio di Melania Trump

Durante il processo, mentre sullo schermo scorreva il video di 13 minuti degli assalitori al Campidoglio, il senatore Rand Paul (Kentucky) faceva ghirigori su un bloc notes, Rick Scott (Florida) Tom Cotton (Arkansas) e Marco Rubio (Florida) studiavano dei dossier guardando di tanto in tanto

LaPresse

Trump e la cattiva condotta
Non condannare Donald Trump farebbe male alla democrazia; creerebbe «un nuovo, terribile modello di cattiva condotta presidenziale». I senatori dovrebbero adottare «il senso comune» dei padri fondatori. La rivolta del 6 gennaio ha fatto del male alla democrazia americana, ha messo in crisi il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, rischia di produrre altre rivolte e altro terrorismo. I nove impeachment manager, che hanno chiuso la presentazione dei loro argomenti con queste considerazioni ansiogene, hanno parlato per tre giorni a turno con facce variamente preoccupate, hanno concordato con la considerazione educatamente esasperata del capo impeachment Jamie Raskin: «Se pensate che le azioni di Trump non siano perseguibili, che cosa lo è? Che cosa potrebbe esserlo?».

Ieri, i democratici hanno parlato, più che di Trump, degli assaltatori trumpiani che hanno detto, alla polizia ma pure su Facebook, di aver invaso il Campidoglio, per Trump, su richiesta di Trump, convinti che Trump venisse con loro (lo aveva più o meno detto). «Le loro dichiarazioni prima, durante e dopo l’attacco chiariscono come l’attacco fosse stato fatto per Donald Trump, seguendo sue istruzioni, per esaudire i suoi desideri», ha detto ieri una dei manager, Diana DeGette del Colorado. E il team investigativo della National Public Radio ha trovato almeno 26 imputati che hanno detto di aver assaltato il Campidoglio perché lo voleva Trump (e ha creato  The Capitol Siege: The Arrested And Their Stories, un database interessantissimo).

Ieri si è parlato anche delle milizie, dei Proud Boys, degli Oath Keeper, delle preparazioni per il 6 gennaio durate settimane, dei rapporti con Trump. I democratici avevano sedici ore per i loro argomenti, non le hanno usate tutte. Oggi gli avvocati di Trump ne useranno, pare, ancora meno (visti i danni che hanno già fatto, è un bene per l’ex presidente). Già hanno cominciato a bullizzare. Uno dei legali, David Schoen, ha definito i video sull’assalto al Campidoglio «un pacchetto intrattenimento» parlando ieri su Fox News. Quando il duo Schoen-Castor avrà finito, i senatori potranno fare domande ad accusa e difesa, e forse votare sull’ammissione di testimoni. Se non ci saranno intoppi il Senato voterà entro domenica.

Il partito malvisto
Trump verrà assolto, quasi certamente, in tempi brevi. Ma questo secondo impeachment non sta passando inosservato. L’assalto al Campidoglio, raccontato in un corto di 13 minuti e non, come è successo finora, con video random, ha colpito molti finora non troppo informati sugli eventi. I nuovi video presentati, con Mike Pence, Mitt Romney, il leader di maggioranza Chuck Schumer che scappavano nei corridoi un secondo prima dell’arrivo degli assalitori, hanno fatto capire che molti parlamentari non sono stati picchiati, feriti o uccisi per un miracolo, o per il coraggio del poliziotto afroamericano Eugene Goodman. E, al netto del terzo di americani ancora trumpiani, convinti che abbiano sottratto l’elezione a Trump (qualcuno lo vede come episodio simbolico, in cui maschi bianchi che si sentono derubati di atavici privilegi si riconoscono), l’opinione pubblica vede i repubblicani e li stima meno.

Secondo un sondaggio Gallup, solo il 37 per cento degli interpellati ha un’opinione favorevole del partito repubblicano (sono i post-trumpiani di cui sopra). A novembre, prima delle contestazioni sul voto, erano il 43 per cento. Mentre quelli che «vedono positivamente» il partito democratico sono un po’ aumentati, dal 45 al 48 per cento. Lo spostamento è avvenuto tra gli elettori repubblicani (i democratici sono perplessi da tempo): tre mesi fa il 90 per cento vedeva il partito «in una luce positiva», ora sono calati al 78 (le 16 ore a disposizione dei repubblicani per difendere Trump potrebbe farli calare ancora).

Le accuse di Whitehouse
«Da una parte c’era la folla che cercava di entrare, che forzava le finestre. Nell’aula del Senato c’erano alcuni che presentavano continuamente obiezioni e rallentavano la conta dei voti». Per dare tempo agli assaltatori «di fare danni, e forse di catturare qualcuno. È possibile che ci sia stata connivenza. Sappiamo che il presidente quel giorno ha chiamato Tommy Tuberville (neosenatore dell’Alabama, ex allenatore di football americano, ndr). Potrebbe aver chiamato altri». Lo ha detto, intervistato da Msnb, il senatore democratico Sheldon Whitehouse. Whitehouse ha fatto sapere che l’Ethics Committee del Senato sta indagando su alcuni procrastinatori del 6 gennaio, tra loro ci sarebbero Ted Cruz e Josh Hawley che sono stati i più filogolpisti, e poi altri (Whitehouse, ex procuratore generale del Rhode Island, Wasp da manuale, non si dichiara contrario all’espulsione dei senatori traditori, e altro).

I turbamenti di Cassidy
«Credo che alcuni possano cambiare idea» ha detto in questi giorni Joe Biden, pensando ai senatori repubblicani. Per ora, al netto dei soliti cinque (Mitt Romney, Lisa Murkowski, Susan Collins, Pat Toomey e Ben Sasse), uno solo l’ha fatto, e non si sa fino a che punto. Il primo giorno dell’impeachment, Bill Cassidy ha votato con i democratici e la banda dei cinque sulla costituzionalità del processo, e ora non si sa come voterà sulla condanna di Trump.

Cassidy viene ripreso mentre prende furiosi appunti, cammina avanti e indietro in fondo all’aula ascoltando gli impeachment manager, scuote la testa guardando i video della rivolta, ha permanentemente un’aria turbata. Intervistato, risponde: «Sono un conservatore costituzionale, ho giurato di applicare la Costituzione». Lo descrivono dilaniato, tra l’evidente desiderio di votare per la condanna di Trump e le pressioni dei suoi elettori in Louisiana (la base trumpiana dello stato, bianca e dedita alla caccia, lo ha soprannominato Psycho Bill, e minaccia, al suo ritorno, ritorsioni).

La gaffe di Tuberville
Un altro repubblicano del Sud, più trumpiano, meno esperto, è stato apprezzato dal suo zoccolo duro bianco reazionario in Alabama, mentre a Washington fa gaffe pericolose. L’altra sera, parlando con dei giornalisti, ha raccontato di aver detto a Trump, al telefono, in tempo reale, che il vicepresidente Mike Pence stava venendo evacuato, e che era in pericolo. Succedeva, è stato ricostruito, alle due e un quarto del pomeriggio. Nove minuti dopo, alle due e 24, Trump attaccava Pence su Twitter per non aver avuto «il coraggio» di rovesciare il risultato elettorale; e la folla inferocita lo cercava in giro per il Campidoglio (dopo aver appeso l’ormai noto cappio dedicato). Insomma, Trump sapeva che Pence era in pericolo e non ha fatto niente, anzi; sarebbe un elemento significativo, in un processo senza repubblicani impauriti, con alcuni complici.

I piedi di Hawley
Josh Hawley, il giovane senatore del Missouri che il 6 gennaio agitava un pugno solidale verso gli assaltatori e poi in aula votava contro il risultato delle elezioni, durante l’impeachment si comporta come un liceale problematico. Siede in galleria con i piedi sullo schienale della poltrona davanti, legge fogli vari, guarda il telefono, qualcuno prevede che entro la settimana comincerà a farsi le unghie e a gridare «Bo-ring!», che palle, all’indirizzo degli impeachment manager.

Non è l’unico repubblicano indisciplinato. I lealisti trumpiani si comportano ostentatamente malissimo. Elenca il Washington Post: «Mentre sullo schermo si vedevano i dimostranti marciare sul Campidoglio, il senatore Rand Paul (Kentucky) faceva ghirigori su un bloc notes. Dietro di lui, Rick Scott (Florida) studiava dei dossier guardando di rado lo schermo. A pochi sedili di distanza, Tom Cotton (Arkansas) e Marco Rubio (Florida) facevano lo stesso».

Intanto, i Trump
Non ci sono notizie di Melania Knavs in Trump, dal giorno in cui è atterrata in Florida, il 20 gennaio. L’unica novità è la decisione del dipartimento della Giustizia, ora non più in mano a un trumpiano, di rinunciare alla causa contro Stephanie Winston Wolkoff, ex amica di Melania, autrice del libro Melania and Me. Il dipartimento aveva cercato di sequestrare i profitti dei libri, sostenendo che l’autrice aveva violato un accordo di non divulgazione; i nuovi dirigenti bideniani hanno fatto sapere che l’archiviazione «è nell’interesse degli Stati Uniti d’America», e nessuno ha protestato.

Intanto Mary Trump, la nipote psicologa clinica autrice di un bel libro su zio e famiglia, Too Much and Never Enough, ha detto in un’intervista di avere dubbi sul futuro dei cugini. Sostenendo che non riusciranno a riabilitarsi dopo il tragico e pasticciato fine mandato del padre. «Penso sia finita per loro», ha detto a Sirius XM Radio, e ha previsto che le loro carriere politiche (Ivanka vorrebbe candidarsi al Senato in Florida, Don junior in uno stato di destra poco popolato) non partiranno. «Penso sia finita del tutto e devono ringraziare il loro padre per questo. Con l’insurrezione è andato troppo oltre». In effetti, ma poi vai a sapere (Mary Trump pensa che Don junior verrà incriminato per i fatti del 6 gennaio, anche).

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