Tenebre amicheUna lezione di estetica sui luoghi oscuri di Venezia

Il capoluogo veneto è la città che somiglia di più allo spirito umano, perché come racconta Carmen Pellegrino in “La felicità degli altri” (La Nave di Teseo) «resta salda sulla più insicura delle basi» e insegna a conoscere il buio personale

Darwin Vegher, da Unsplash

Venezia fu la prima buona idea della mia vita. Avevo trentasei anni quando vi presi dimora, pervasa da un inspiegabile, a tratti tenero, sentimento per me; era autunno e pensavo di restarci fino alla primavera, ma ora non saprei dire quanto ci rimasi, in termini di tempo misurabile.

Posso però dire che il tempo trascorso fra le calli ha modificato per sempre qualcosa di me. Hanno ragione quelli che studiano a fondo i luoghi: possono “trasformare”, dare forma a chi vi si immerge con l’intenzione di farsi camminare accanto dai fantasmi che trattengono. Non dicono niente, questi fantasmi dei luoghi, si limitano ad accompagnarci, portando con sé una persistenza di vita sopravvissuta alle distruzioni. Cos’era Venezia, prima della distruzione della Grande Guerra? E prima ancora, prima di essere un aerolite di pietra?

Le giunture tra le sue forme, richiami a un’arte che non rifuggiva il disordine dell’immaginazione – la selvatichezza del gotico che Ruskin ripropone senza biasimo, giacché contiene una verità profonda che l’istinto umano coglie quasi inconsciamente – quelle giunture, dicevo, raccontano di un luogo a cui non occorrono geometrie grevi, un luogo non atterrito dalla fragilità. Come posso dire?

Venezia è una configurazione dello spirito: resta salda sulla più insicura delle basi. Quell’anno, decisi di seguire un corso che si sarebbe rivelato un irregolare tracciato su certi sensi sottili e secondi dell’animo umano. Era il corso di Estetica dell’ombra, tenuto dal professor T., uomo immobile e solitario.

Il primo giorno – finiva settembre e quello sarebbe stato il suo ultimo semestre – entrò in aula e si scusò. «Faccio fatica a parlare» disse, «non ho parlato con nessuno per tutta l’estate».

In seguito non aggiunse molto altro, limitandosi alle parole indispensabili al corso.

Una volta disse:

«Abbiamo i sensi irritati dalla luce, accecati da fonti luminose che perseguitano l’ombra. Rifuggiamo l’oscurità come se temessimo di venirne risucchiati».

Indossò per tutto il semestre pantaloni e giacca grigia; nei giorni più freddi si proteggeva con una sciarpa dello stesso verde mimetico del borsalino che portava calcato profondamente sulla testa; anche nei giorni di sole non dimenticava l’impermeabile, benché fosse sciupato in modo evidente.

Tutto di lui parlava di un tempo precedente in cui era rimasto impigliato, e quello in corso solo un riflesso che lo affrancava dalla fatica di ogni possibile avvenire. Si diceva che gli avesse fatto cilecca la vita.

Solo una mattina ci sorprese annunciando, con un inedito guizzo, l’esposizione di alcuni suoi vecchi dipinti alla Galleria di San Marco. Se avessimo voluto andarci, disse tenendo gli occhi a terra, l’ingresso era gratuito. Nessuno ci andò.

«Formiamo delle ombre», diceva, «i nostri corpi generano ombre che ci camminano a fianco, come buoni amici, amici di cui fidarsi. A volte ci precedono, scovando il fosso prima che ci finiamo dentro. Perché le maltrattiamo?»

«Nascondiamo la nostra debolezza» continuava e io prendevo appunti, «e rifuggiamo quella degli altri per non esserne contagiati. Ma sono le nostre ombre a essere indebolite, per la fatica di proteggerci. Bisognerebbe averne riguardo, trattarle con gentilezza. Cercare il luogo oscuro dove riparano. Non giudicare».

Lo ripeteva spesso: il luogo oscuro; e guardava davanti a sé, oltre le nostre teste, oltre la parete in fondo.

Una mattina, finita la lezione, mentre gli altri uscivano in fretta dall’aula, io mi avvicinai alla cattedra. Ferma al limite del mio spazio, aspettai che mettesse in ordine le sue cose nella borsa di pelle consumata. Ripose le penne nel comparto delle penne, dopo averle incappucciate, prima la rossa, poi la nera, quindi chiuse la borsa facendo scattare la fibbia; raccolse i fogli della lezione, li sbatté due volte sulla cattedra per allinearli, li ordinò in una cartella; riaprì la borsa, vi infilò la cartella, richiuse la borsa.

Sulla cattedra era rimasta l’agenda, aperta sul giorno in corso. Riaprì la borsa, estrasse la penna nera, la scappucciò, tracciò una grossa X sulla data del giorno – vaga impressione di soddisfazione sul suo viso, come di compito portato a termine, di fatica eseguita; riaprì la borsa, rincappucciò la penna, la riposò nel comparto, reinserì la fibbia. Restava fuori l’agenda. Con due dita la richiuse e io vidi la data riportata sul dorso: 1985!

«Non si sorprenda» disse con un lievissimo sorriso, «ogni calendario torna valido dopo ventotto anni. E poi sa, l’85 è stato un buon anno per me».

«Mi scusi». Arrossii.

«Veda» riprese, «io penso che l’idea che esista il tempo non sia che una superbia. Ci arroghiamo il diritto di sequenziare il semplice alternarsi del giorno e della notte in ore, minuti, istanti che fuggono sempre in avanti. Se possiamo fare questo, se possiamo perfino correggere le stagioni, perché non potremmo mandarla indietro, ammesso che esista, questa diceria che chiamiamo tempo?»

A quel punto s’interruppe e si alzò dalla sedia, due giri di sciarpa intorno al collo, una stirata con le mani all’impermeabile gualcito. Dopo aver accostato la sedia alla cattedra, prese borsa e agenda e di nuovo mi guardò:

«Voleva dirmi qualcosa?»

«Sì, professore,” balbettai. “Ecco, vorrei chiederle cosa intende per luogo oscuro: lo nomina spesso nelle sue lezioni, sento che è un concetto che mi appartiene, ma non saprei oggettivarlo».

Gli vidi le orecchie arrossarsi, e così le guance. Forse gli ero d’imbarazzo, ero stata impudente ad avvicinarmi tanto. Rimanemmo in silenzio prendendo un respiro di riserva.

«Cosa intendo, cosa intendo…» disse, muovendosi per uscire dall’aula. «Non è un concetto, è una terra: una terra dove tanti di noi scolorano. Conosce la Seconda lettera di Pietro?»

«No», risposi.

«Vada a leggersela. Nella prima parte si fa cenno a una lampada che brilla in un luogo oscuro: tolga per un momento la lampada, le resterà tanta materia organica».

 

da “La felicità degli altri”, di Carmen Pellegrino, La Nave di Teseo, 2021, pagine 160, euro 18

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