«Non facciamola troppo lunga e complicata la tirata sennò perdiamo il filo, e il filo ci scivola dalle dita e si imbroglia e s’arruffa in groviglio d’arte e vita (si sente che io, critico letterario, ho tanto amato il caffè cantante, si sente?). E allora: Vito Taburno. Ti ho ascoltato, Vito, e m’è parso d’averti capito. Oh, la temperie, la temperie, il clima, lo stato mite dell’atmosfera, talvolta contrapposto all’intemperie… Voglio dire: lo stato mite dei locali e dei giardini, le ariette leggere della musica, il ballo, i passi fatti avanti e i passi indietro, la carezza delle suole al pavimento, la chiacchiera sui colli, i colli umani, preferibilmente alti, gli alti colli, il brusio nebbioso, le posate, i piatti, gli orli toccanti dei bicchieri, come sotto i tavoli i ginocchi, le grandi guerre tutt’e due finite, l’Ottocento da un bel pezzo: cinquant’anni. Altri cinquanta sono prossimi a venire, e Vito canta. Tutto in lui è attività sensoriale, percezione, è attratto dalla superficie dei corpi e delle cose, anche il cielo è per lui superficiale, toccarlo con le dita è assai normale, anche l’enfasi è pasto esistenziale…», questo e altro scrisse di me un tizio sulla “Fiera Letteraria”.
Cantavo al Tico Tico, venne a trovarmi col giornale in mano, gli presentai Brigida, passarono la serata a un tavolo per due, mentre io cantavo. Cantando mi distrassi (le canzoni sono per me, come per tutti, una distrazione, nelle canzoni ci si distrae, solo che io mi distraggo dalle canzoni cantandole, penso alle ortensie da annaffiare). A fine serata scesi tra i tavoli, Brigida era sola. Le chiesi dove fosse il tizio.
«Scusami, non lo so», mi disse cercandolo oltre il bordo del tavolo e sotto, «era qua, continuava a ordinare da bere, non lo so cos’è successo». Guardò nella sua coppa vuota, stretta con due dita al gambo, facendola oscillare: «Oddio, mi sa che distrattamente me lo sono bevuto», disse. Cose che capitano.
Ritrovai il giornale, lo sfogliai per vedere se il tizio fosse lì tra le pagine, c’era, c’era il suo nome, era sopra l’articolo nel quale scriveva di me, lessi ancora: «… Si sente che tra il cinquanta e il sessanta sarà attratto dal “nuovo romanzo”, ma anche si sente che ha avuto a che fare con gli unici autentici canzonettisti italiani: Corazzini, Govoni, Gozzano, Palazzeschi, anche Saba, ma anche Lucini e, come no, Dossi. Si vede che è uno che rincasa al crepuscolo, un crepuscolo però d’alba, quel crepuscolo mattutino che in controluce incendia i capelli scompigliati, tornando a casa, finita la serata e la notte, quando nelle estati italiane fa un fresco bellissimo, e l’aria si smuove e corre verso ovest perché arriva il sole dalle mascelle afose e dalla gola torrida. Ha conosciuto anche, mi chiedo, il giovane Corbière e l’altro più giovane ancora, quel Laforgue? Pascoli certamente, Pascoli che spinge la rima a fine verso come sull’orlo di un baratro, dopo di che la rima si suicida e non ce n’è più per nessuno. La severe e serie rime di Pascoli, finali…». Brigida, le dissi, prendi un digestivo.
Una notte ho sognato di essere un trafficante, no, non un trafficante ma proprio uno spacciatore di canzoni. Non sapendo dove nasconderle le imparavo a memoria e andavo a smerciare, a mettere in circolazione queste misture, queste mescole stupefacenti. Le propinavo la sera nei locali da ballo e da musica, insomma cantavo la mia merce, la smerciavo appunto.
Il locale diventava fumoso (sto sognando), non per il fumo ma per il talco sparso a sbuffi in aria in quel locale che è in quel film con Totò e la dolce vita. Nel sogno il locale era quello, Totò era Totò, e il talco era talco.
Lo so che «propinare» discende da «dare a bere»? Un attimo, me lo sto domandando: lo so? So che in quei locali si beveva. Tutto questo, in sogno. Che stanchezza parlare di canzoni, che stanchezza, ma qualcuno deve farlo, una volta per tutte.
Mi facevo capire, pensavo la frase «canto per tutti ma solo per te» la facevo scorrere sullo sguardo come un sottotitolo tradotto nell’idioma degli occhi. È una tecnica, la insegnava il maestro Katso Janek: far galleggiare i tuoi pensieri sul corso dello sguardo. Non so se ancora si insegni, è materia piuttosto riservata, anzi segreta, statunitense, non dovrei nemmeno parlarne, è lo speecheye.
Lo spettacolo è pieno di segreti, anche le canzoni. Ma non tutte, solo le mie. Nelle mie, in ogni verso è detto quel che accade esattamente in quel verso, e ogni verso di una mia canzone dura molto di più della canzone intera, questo è il segreto, e non è il solo ma per ora basta e avanza.
L’equivoco nasce dal credere che accada qualcosa da qualche altra parte. Se capisci cosa dice una canzone non mia nell’insieme dei suoi versi, non hai capito niente se non quel che dice: una cosetta già nota e conveniente per tirare avanti, tirare avanti fino alla fine della canzone, un tempo breve durante il quale la percentuale di sopravvivenza è molto alta.
Il come va a finire, il finale di molti romanzi corposi, invece, è stato spesso annientato dalla conclusione della vita di chi li leggeva, che finiva prima della fine del romanzo. Qualche volta penso a chi non ha saputo come va a finire perché è arrivata prima la sua fine. E ancora: chi ha saltato le pagine penultime per arrivare subito alle ultime perché la sua vita stava finendo. Questo fa piangere più dei romanzi che fanno piangere.
Ci ho pensato quando era in corso il dibattito sulla morte del romanzo. Ecco perché esistono le canzoni: perché le canzoni finiscono prima. Molte canzoni sì, come no, certo che fanno piangere, fanno piangere chi le canta, non chi le ascolta. Se chi ascolta piange è perché crede di star cantando, è già qualcosa, versa le lacrime di chi canta. Chi canta sa però trattenerle, esiste una tecnica anche per questo, l’espediente più semplice è sudare.
Tante artiste e tanti artisti cantano con una piccola coppa nelle mutande. Lo so, non dovrei dirlo ma ormai sono evangelico, in verità vi dico.