Joe Biden punterà al dialogo. Ma anche alla salvaguardia dell’ambiente. Sono questi i due punti fermi, nei piani di azione del neopresidente degli Stati Uniti, da attuare in America Latina.
Per assicurarsi un posto da responsible stakeholder alla guida dell’azione climatica globale, gli Stati Uniti di Biden hanno intenzione di iniziare a costruire alleanze nel cosiddetto “giardino di casa”. Il tema ambientale, però, sarà fonte di tensioni. Ne sa qualcosa Jair Bolsonaro, reo di aver mal digerito la dichiarazione di Biden in cui si affermava che il Brasile potrebbe affrontare gravi conseguenze economiche se non riuscirà a frenare la deforestazione in Amazzonia. In risposta, Bolsonaro ha dichiarato che il Brasile avrebbe resistito «con la polvere da sparo».
Biden vorrebbe istituire un fondo da 20 miliardi di euro per proteggere l’Amazzonia, ma il Brasile considera quest’iniziativa una minaccia alla sua sovranità. Lo stesso vale per Andrés Manuel López Obrador, presidente del Messico e sostenitore del monopolio dello suo Paese sul petrolio, nonché contrario ai progetti statunitensi basati sulle energie rinnovabili.
Già prima di assumere ufficialmente l’incarico Joe Biden aveva chiarito che avrebbe messo il cambiamento climatico al centro delle sue politiche domestiche ed estere come nessun altro presidente prima di lui aveva fatto. Come candidato, ha proposto il piano climatico più ambizioso di qualsiasi altro governo nella storia, promettendo zero emissioni nette entro il 2050.
Come presidente eletto, ha nominato l’ex-segretario di Stato John Kerry a funzionario di gabinetto per la gestione del cambiamento climatico.
E nondimeno, tra le prime decisioni prese dal nuovo presidente degli Stati Uniti, ci sono il reintegro del Paese nell’accordo di Parigi e la firma di una serie di provvedimenti per la sospensione delle nuove concessioni petrolifere sulle terre e le acque federali, per l’aumento della capacità eolica offshore e per l’acquisto di una flotta a zero emissioni da parte del governo.
Insomma, il “giardino” d’America subirà la “pressione verde” da parte di Washington. Al tal punto che i primi risultati cominciano già a vedersi. Bolsonaro sta infatti percorrendo una strada alternativa, apparentemente più ecologista.
In particolare, ha deciso di promuovere un’iniziativa federale che include un piano di salvaguardia della foresta pluviale amazzonica. Il programma, chiamato “Adotta un parco”, riguarda ben 63 milioni di ettari di foresta pluviale, il 15 per cento dell’Amazzonia brasiliana. L’iniziativa, approvata il 9 febbraio scorso dopo uno stop di 6 mesi, consente non solo a privati cittadini, ma anche ad aziende nazionali e straniere, di contribuire allo stanziamento di fondi da destinare ad attività di conservazione delle aree protette.
I partecipanti sono tenuti a donare un importo iniziale di 50 real (7,50 euro) per ogni ettaro “adottato”. Nel caso in cui tutte le aree considerate venissero adottate, nelle casse del governo entrerebbero 3 miliardi di real (460 milioni di euro). Il valore minimo per i donatori stranieri è pari a 10 euro per ettaro. L’operazione è stata realizzata sia per evitare possibili sanzioni statunitensi sia per scongiurare la mancata ratifica dell’accordo commerciale tra Unione europea e Mercosur, che a sua volta metterebbe a rischio gli allevatori e i grandi latifondisti brasiliani.
L’iniziativa però non è servita a cancellare quanto fatto dal presidente del Brasile in questo 2020. In piena pandemia, mentre la foresta amazzonica continuava a bruciare, il governo brasiliano guidato da Jair Bolsonaro ha continuato ad allentare i regolamenti e le leggi nazionali in materia di conservazione ambientale, favorendo pratiche illegali quali il disboscamento, la deforestazione, l’estrazione mineraria, l’occupazione abusiva dei terreni per l’agrobusiness e la distruzione della foresta amazzonica. Per questo il nuovo programma “Adotta un parco” è stato accusato dalle associazioni ambientaliste di essere una manovra di greenwashing (“ambientalismo di facciata”), e di servire gli interessi economici del settore agroalimentare brasiliano e i suoi interessi politici.
Oltre al Brasile, gli altri due Paesi latinoamericani che fanno parte del cosiddetto G20 – Argentina e Messico – saranno i più pressati dagli impegni ambientali proposti da Biden. Nel suo piano di governo il presidente americano parla di «una rete energetica più integrata, dal Messico attraverso l’America Centrale e la Colombia, fornita da energia sempre più pulita».
Nei primi posti dell’agenda, secondo quanto riportato dai consiglieri di Biden e dal New York Times, c’è anche l’aumento delle esportazioni di tecnologie pulite e la promozione degli investimenti in questo settore da parte delle aziende statunitensi. La regione ha infatti bisogno di accedere a tecnologie come lo stoccaggio tramite batterie, i veicoli elettrici, la cattura del carbonio e i sistemi per la rilevazione delle fughe di metano.
All’America Latina di certo non mancano le risorse naturali per piazzarsi tra le protagoniste della corsa all’idrogeno pulito. Quel che manca, semmai, è un panorama politico stabile che dia certezze agli investitori e quella governance comune attuata dall’Unione europea. Un’eccezione è rappresentata dal Cile, che è pronto a varare un ambiziosa strategia nazionale per fare del Paese uno dei principali produttori mondiali di idrogeno verde entro il 2040.
La Export-Import Bank degli Stati Uniti e la Development Finance Corporation (due istituti governativi: la prima è un’agenzia di credito all’esportazione e la seconda una banca di sviluppo) dovrebbero quindi concentrarsi sulla concessione di prestiti per soluzioni energetiche pulite o a basse emissioni in America Latina. In Argentina, per esempio, dozzine di progetti sulle rinnovabili sono fermi al palo perché la loro progettazione è stata rimandata per mancanza di finanziamenti.
Perché l’America Latina? Già nel 2014, quand’era vicepresidente di Obama, Biden ha finanziato la Caribbean Energy Security Initiative (Cesi), un piano di agevolazione ai finanziamenti per la produzione di energia pulita a più basso costo nell’America Centrale. A una conferenza del 2016, invece, Biden parlò del sostegno statunitense per le centrali geotermiche nella nazione caraibica di Saint Vincent e Grenadine e per l’interconnessione elettrica in America centrale.
Nel 2019 il Brasile rappresentava il 40 per cento dei progetti di investimento provenienti dall’estero per il settore dell’energia rinnovabile, seguito da Cile, Messico e Colombia. Nel recente documento “Evolución futura de costos de la energías renovables y almacenamiento en América Latina”, il Bid (la Banca Interamericana di Sviluppo) considera Messico e Brasile i due Paesi più attrattivi (fatto salvo l’ostacolo Bolsonaro). C’è poi il rafforzamento della cooperazione sulla resilienza climatica tra gli Stati Uniti, l’America centrale e i Caraibi, due aree particolarmente vulnerabili ai fenomeni meteorologici estremi come gli uragani e le tempeste, che spesso danneggiano le reti elettriche causando blackout prolungati.
Gli Stati Uniti, potrebbero investire o favorire gli investimenti, in tecnologie come le smart grid, in infrastrutture di rete più piccole e decentralizzate e in sistemi di stoccaggio. Il trasporto elettrico permetterebbe inoltre di alleviare il problema dell’inquinamento dell’area e della dipendenza dalle importazioni di petrolio.
Infine, anche le nomine fatte sinora da Biden per le posizioni ministeriali che, direttamente, si occuperanno della regione a Sud del Rio Bravo fanno capire che il cambiamento ci sarà. A cominciare da quella del giovane colombiano Juan Sebastián González, primo consigliere di Biden per l’America Latina. Il suo compito sarà quello di assistere Biden sulle questioni di politica di sicurezza e affari esteri. Una pessima notizia per Bolsonaro, viste le dure critiche fatte di recente da González nei confronti dell’agenda ambientale del governo verde-oro.