Ricordo l’inizio di quel grande amore, e lo ricordo come fosse ieri. Anche se, in realtà, è cominciato oggi, stamattina, questo grande amore, ma cosa sarebbe la realtà se non fosse un po’ romanzesca. No, non è una domanda, è un espediente retorico, o è la solita rissa tra tempi verbali, il passato, il presente, il passato prossimo eccetera.
Allora, spinto…
Come è mai possibile sentirsi spinto in maniera così netta, precisa, senza però avere nessuna cognizione del perché e verso quale appagamento se non quello di una egoistica soddisfazione?
Insomma, spinto da un bisogno che definirei primario, quindi trascurando tutti gli aspetti secondari della faccenda, mi avvio verso la casa di lei. Casa che non conosco, intendo l’interno, ma della quale conosco il portone d’ingresso.
Perché lo conosco? Perché non dovrei?
Allora, ricominciamo: spinto, mi avvio verso casa di lei. Sono al portone per non farla tanto lunga, sia la strada sia la solfa. Ecco perché lo conosco: perché abitiamo sulla stessa via, a pochi paragrafi l’una dall’altro, l’altro sarei io.
Leggo i nomi sul citofono, il suo, molto letterario, c’è, spingo il pulsante. Conosco anche il suo nome? Al quesito risponde, dopo un rumore di sradicamento, la sua voce, solo “Chi…”, è lei. “Chi…”, la i, lunga e interrogativa, si intreccia ai fili elettrici sottostanti la plafoniera producendo una scarica, il crepitio di un’eco che si frantuma, così mi pare. Solo “Chi…”. Giusto, che altro? “Io”, ecco. Dico chi sono, sono io, io narrante. Dice: sì, sali, terzo piano senza ascensore. E poi: ah menomale. Menomale che? Non so. Il citofono crolla rumoroso nel silenzio.
Salgo, ancora più spinto, in affanno, anche lei è in affanno ma in posa nella luce della porta, una mano al battente e l’altra, più in alto, sul telaio. Ha addosso un lenzuolo, no, un asciugamano che sembra un lenzuolo bianco, un vasto asciugamano, anche con le frange a ben guardare, un angolo sulla spalla a trattenerlo.
Sapessi, sapessi, mi dice, menomale che sei venuto, sapessi. Stamattina cosa mi viene in mente? Di andare, mi dice, a fare due passi, sola, nel bosco letterario.
Si scrive minuscolo o maiuscolo, bosco letterario?
Sapessi, le ho viste spuntare come funghi, una cosa orrenda, mi dice, raccapricciante, ho visto quelle piccole teste di fungo, quelle piccole teste di fungo che scrivono, oddio, seguimi. Mi precede distendendo il lenzuolo a braccia aperte, non vedo che il lenzuolo e la sua testa, sopra, che galleggia, i piedi nudi sotto, ma non è un lenzuolo, è un esteso asciugamano bianco con le frange. Se ne riavvolge, trattenendolo sul petto, si volta.
“Oddio”, alza le mani dal petto al cielo, l’asciugamano le sta scivolando di dosso a sghimbescio, lei l’afferra in tempo (quale tempo?) ma un seno è scoperto, lei lo ricopre, tira su il lenzuolo, mi pare più un lenzuolo, lo ferma con le mani incrociate sul petto come una santa ritratta, gli occhi al cielo. Io nei miei occhi ho il suo capezzolo come fotografato in uno scatto delle palpebre, l’otturatore umano, la mia memoria lo sta già sviluppando.
Non sono come funghetti animati, sono peggio, mi dice, scrivono tutti come funghi. Si consiglia leggerli con aggiunta di prezzemolo e aglio, e parecchio pepe, olio e sale, è ovvio, e fuoco vivace.
Leggere è, per caso, trifolare? Lei ha queste visioni letterarie. Guarda, sono scappata di corsa, mi mostra una gamba allungandola fuori di tra il sipario del lenzuolo (è un sipario bianco con le frange che spazzano il palco?). È davvero schizzata di fango ma come al cinema: soprattutto il polpaccio è truccato di schizzi verdognoli, grigi. Me lo mostra come eseguendo una figura del can can, la gamba ad angolo retto, vorticosa dal ginocchio in giù.
Considero, guardo, mi sembra un film teatrale.
Devo togliermelo di dosso, dice. Aspettavo te per la schiena. Cos’è? Ha corso nuda nel bosco?
Mi aspettavi davvero? Davvero le ho chiesto questo? No, mi risponde, ma siccome sei qui diamo un senso alla cosa, ci rimedi un paragrafo. Davvero ha risposto così?
Poi ha detto: ho bisogno di calmarmi, entra con me nella vasca, lavami la schiena con molta tenerezza e molto sapone. Il sipario non calò ma veramente cadde al suolo sia come un asciugamano sia come un lenzuolo, l’uno per l’altro bianchi, inerti entrambi, sparse le frange.
Così da ieri, molto schiumoso, è nato tra noi il grande amore, che oggi vive il suo primo giorno tutto intero, lei mi chiama tesoro, io la chiamo con nomi della stessa ricchezza, secondo quel che posso permettermi in sperpero di parole iperboliche e sonanti come le monete d’oro sbattute sul marmo dei tempi passati.
“È l’inizio di un romanzo?”, mi chiede.
“No, di un racconto, così faccio prima”, rispondo.
“Tutta questa esattezza, tutti questi dettagli, tutta questa aderenza alla vita, tutto questo bianco, tutto questo parlare di noi senza nulla tacere”, mi dice.
“Più parli e più scrivo”, le dico.
“Anche quello che adesso ti sto dicendo?”
“Anche quello, leggi qua, la riga precedente, è quello che hai detto”
“Sei un funghetto anche tu?” “No, sono un giglio bianco” “Volevo ben dire”
“L’hai detto”
Baciami. Chi ha detto baciami?