È così che inizierei il racconto.
Così: se il ricordo genera, come verbo, un ricordare, la memoria forse non ha verbo. Sì, rammemorare, memorizzare è tutta un’altra cosa, è sperpero al futuro, non è la raccolta di un passato.
Però no, perché rammemorare pare un sinonimo – non esistono sinonimi ma solo parole che fingono somiglianze per passare osservate
– di ricordare. Non solo, significherebbe (le parole non significano) ricordare ma in maniera incredibilmente più smemorata, quasi una sfiducia nella memoria, che invochiamo perché liberi un ricordo.
Rammemorare, come parola, richiama alla mente un “richiamare alla memoria” (così nei vocabolari): è già giro vizioso. Poi sarebbe, a voler essere antipatici ossia precisi, non un “richiamare alla memoria” ma un “richiamare dalla memoria” ovvero fare un fischio verso la mischia oscura del memorabile perché qualcosa venga fuori dalla memoria alla memoria. Cioè avremmo due memorie.
L’una, distante e chiusa in sé come un romanzo romanzesco, romanzesco perché se ne conosce l’esistenza ma ci arriva a frammenti e mai per intero, insomma un romanzo avventuroso che ne ha viste tante (di che? Di cose. Cose nella memoria?). L’altra, la nostra memoria al momento, forse la nostra mente che strappa uno di quei frammenti al romanzo romanzesco e ce lo fa guizzare sotto gli occhi e sotto un’altra luce, o flebile o abbagliante o incerta e tremula, o come pagina sull’acqua se non addirittura sotto.
Insomma avremmo una memoria, diciamo prima, quella laggiù, e una memoria seconda, quella d’oggi ossia al tempo in cui rammemoriamo. Tempo in cui, strappato quel frammento, più che leggerlo, o forse anche leggendolo, lo perdiamo (sull’acqua che scorre e che lo stinge, o sotto che è anche peggio).
L’acqua c’entra perché se accettiamo “richiamare alla mente”, allora la mente è superficie, a galla della quale richiamiamo qualcosa che sta sotto la mente.
È stato osservato che alcuni ricordi assai lontani, che con indolenza si sono mossi in noi come anguille in pozzi scuri, e si son mossi per anni senza che noi li richiamassimo, ecco, è dimostrato che, invocati in superficie un certo giorno e addirittura illuminati (male, sempre male), appena apparsi, quasi visibili e sinuosi (sono sinuosi, i ricordi), ecco che subito, già mentre li ricordiamo, tendono al diafano, e scompaiono, li perdiamo.
Voglio dire: non sappiamo cosa accadde veramente, “veramente” per dire in generale. Sì, in generale, perché quello che accadde a noi singolarmente, quando accadde cambiò il mondo. È un po’ difficile da rendere alla mente.
La memoria, voglio dire, non ha nulla a che vedere col ricordo ossia con tutte le nostre morti a galla nel passato. La memoria ha a che veder sé stessa, è attività in noi di ogni altra vita, incredibile visu, incredibile alla vista. Perciò non ci credemmo al tempo in cui avremmo potuto vivere ogni altra vita. Ma la memoria, ora, ci fa ricredere. Dico ora perché il tempo della memoria è sempre il momento in corso, se noi l’afferriamo, è sempre ora. E la memoria che in me lavora ora mi fa credere che io vissi quella vita allora, e veramente la vissi.
Quasi non ci ho capito niente nemmeno io, ma invece sì se mi rileggo più lento di come l’ho scritto. Poi proseguirei con il racconto.
Nella memoria il mondo cambia talmente tanto, e in maniera talmente incredibile cambia, che noi, per difendere quel po’ di lucidità cui teniamo, quel risibile equilibrio che ci consente di mantenere i piedi sulla terra, per non andare in giro vacillando, noi ci smemoriamo ricorrendo alla memoria per smentirla a colpi di ricordi o usandoli come pezze ricavate dai nostri abiti d’oggi (le nostre vesti strappate) con le quali tappiamo falle aperte nella memoria, fessure di tra le quali intravediamo, anzi abbiamo (sì, le abbiamo in noi) visioni, rispetto alle quali quelle proiettate nel futuro sono soltanto petulanti sviste.
C’è quindi conflitto tra ricordo e memoria? C’è sì.
La memoria ricopre, il ricordo porta o crede di portare alla luce in superficie. La memoria stratifica, sedimenta, crea coltri: con le terre, le sabbie, le polveri, copre vestigia, tracce, orme, impronte, toglie durata al tempo aggiungendo peso sovrastante. Voglio dire: tra diecimila anni noi di oggi saremo assimilati alla preistoria, avremo addosso la stessa polvere del tempo, la cui durata consisterà di qualche istante, nemmeno una paginetta (ci saranno ancora paginette, ancora ridicolmente elettroniche?).
Ecco: le polveri, anche i talchi friabili, anche le ciprie, sotto le quali, rimuovendole, appaiono controversi volti. Sotto la memoria sono ancora architettate le nostre città, i paesi, i paesaggi, anche i panorami, e non come ruderi o pitture ferme, anzi come luoghi mobili, mossi come un corpo di ballo in azione con cambi a vista sia della scena sia dei costumi eclettici. La memoria è, sì, falda coprente, ma si offre a rinvenimenti, semplicemente discostando l’accumulo tra noi e noi stessi, quando noi stessi, forse, veramente fummo, incredibili fummo.
Allora la memoria, assai vogliosa, eccita la nostra fantasia, così che memoria e fantasia si uniscono, si fondono, e sono anche lo stampo nel quale la fusione incandescente cola, e lo stampo ha la nostra forma, e in essa noi fluiamo come lega di fantasia e memoria.
Il ricordo non è che turistico, smercia oggettistica da bancarella, commercia in quelli che si chiamano souvenir del luogo, artisticamente è imitativo: noi imitiamo quel che fu e quel che fummo, si potrebbe dire che il ricordo è parodistico. A differenza delle riproduzioni da bancarella, che procedono a riduzioni affinché un monumento possa essere portato in palmo di mano e stretto in pugno, ecco che il ricordo invece amplifica, esagera in grandezze, così che, dovessimo tornare sui luoghi ricordati, e per luoghi intendo anche noi stessi, quei luoghi ci sembrerebbero, nell’originale, più piccoli, e anche più bruttine le bellezze.
Il ricordo spesso apre la porta alla delusione, anche al sospetto che forse quel che accadde non accadde perché meglio così, perché questo vogliamo credere: che sia meglio così, che non accadde. Insomma, voglio dire, non sto ricordando, sto vivendo nella memoria quel che vissi, non rigiro tra le dita una ciocca di capelli tenuti stretti da un nastro, ho le dita tra quei capelli e guance vive, tiepide, nelle mani.
E non credo in quello che scrivo perché quello che scrivo è incredibile, quindi non ci credo, però lo vivo.
E vediamo (noi: lo scrivere e io) se riusciamo ad avviare il racconto nel quale davvero vissi ovvero a memoria.