Progettare e cambiareLa grande crisi delle piccole aziende italiane provocata dalla pandemia

La contrazione economica causata dall’emergenza sanitaria ha colpito in modo diseguale alcuni settori risparmiandone altri. Le imprese più penalizzate sono quelle dai 10 ai 50 addetti e quelle micro che hanno fino a 10 dipendenti. Per incrementare la loro produttività adesso c’è bisogno di politiche ben strutturate

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Come e più che nelle precedenti recessioni, quelle del 2008-2009 e 2011-2013, quella del 2020, la peggiore dal Dopoguerra ad oggi, non ha rappresentato solo un crollo del Pil, dei consumi, dei redditi e soprattutto dell’occupazione, ma anche una spietata forma di selezione all’interno del mercato.

Resa ancora più evidente in questa occasione dal fatto che più delle altre è stata una recessione asimmetrica, che ha colpito in modo molto più diseguale del solito alcuni settori risparmiandone altri. E in particolare quei settori in cui guarda caso erano più concentrate quelle tipologie di aziende già maggiormente svantaggiate quando un processo di selezione viene messo in atto.

Parliamo di quelle più piccole. Dei circa 12,9 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato più di metà è occupato in aziende piccole (tra 10 e 50 addetti) o micro (fino a 10). Come è ampiamente risaputo, siamo tra i Paesi europei in cui tale distribuzione dei lavoratori è più accentuata.

E tuttavia questo non ha conseguenze neutre in caso di crisi, considerando che sono queste ultime quelle ne che soffrono maggiormente l’impatto. Dei 207.986 posti di lavoro persi come dipendenti privati nella prima metà del 2020, ben 123.150 si sono volatilizzati nell’ambito delle imprese con 15 addetti o meno, che in realtà occupavano solo poco più di 4 milioni su 12,9.

Per rendere più evidente il confronto basti pensare che se nelle micro-aziende con meno di 6 addetti il calo dei lavoratori è stato del 3,1%, in quelle più grandi, con più di 250 lavoratori, è stato solo del 0,7%.


Dati ISTAT

Non dimentichiamo che tutto ciò è avvenuto nonostante fosse in vigore la cassa integrazione in deroga più larga della storia e il blocco dei licenziamenti. Vuol dire che sostanzialmente questi dati sono dovuti solo al mancato rinnovo delle posizioni a termine, del resto più diffuse nelle piccole realtà, e al mancato rimpiazzo di coloro che sono andati in pensione.

A pesare è appunto anche la natura più precaria del lavoro nelle imprese più piccole, che si traduce in un paradosso: ci sono più assunzioni in queste che nelle grandi aziende (che pure impiegano più lavoratori). Persino nei mesi più critici del 2020, quando nelle aziende fino a 5 addetti sono state fatte 1,3 milioni di attivazioni, ben più delle 994 mila di quelle con più di 250 dipendenti, in cui pure è occupato un numero doppio di lavoratori.


Dati ISTAT

Il gap si ripete e anzi si accentua nelle cessazioni: un milione e 359 mila contro un milione e 20 mila, e mostra come nelle imprese più piccole il turnover sia molto superiore, più del doppio di quello presente nelle società più grandi, e costituisca un elemento di fragilità visto che coincide, essendone sia conseguenza che in parte anche causa, con maggiori perdite di fatturato.


Dati ISTAT

Non è un caso che i tassi di cessazione, ma anche di attivazione, e quindi di turnover, siano massimi proprio nei settori alloggi e ristorazione e attività ricreative, artistiche, sportive. Le stesse attività che hanno subito la maggiore perdita di personale, del 10,1% e del 7,6% solo nella prima parte del 2020.

In questi due ambiti il ricambio sembra vorticoso. Sia le attivazioni che le cessazioni sono state più degli stock di dipendenti già esistenti. Per esempio nel mondo della ristorazione e dell’ospitalità a fronte di 1,2 milioni di dipendenti vi sono state un milione e 645 mila ingressi e un milione e 766 mila uscite. Vuol dire che anche nel momento più difficile, bar, ristoranti, alberghi hanno continuato ad assumere personale con contratti a tempo determinato di brevissima durata, interrompendo quelli già in essere nel tentativo di mantenere il più basso possibile il costo del lavoro.


Dati ISTAT

Una girandola che se in tempi normali negli ultimi anni si era tradotto con un saldo finale positivo, con i posti in questi settori che seppur precari aumentavano, nel 2020 ha visto tantissimi lavoratori rimanere senza sedia in questo enorme gioco dei 4 cantoni in cui si passa da un posto all’altro.

Naturalmente l’ambito della ristorazione o del divertimento il 2020 sarebbe stato un anno perdente anche se la struttura delle imprese fosse stata più robusta, con realtà più grandi, più catene, meno micro-attività. Tuttavia, almeno dal punto di vista dell’occupazione, con una più grande proporzione di assunzioni a tempo indeterminato, magari giustificate dalle maggiori dimensioni, vi sarebbe stato un minore turnover, meno attivazioni ma soprattutto meno cessazioni, e più lavoratori, anche grazie alla cassa integrazione, sarebbero rimasti al proprio posto.

Del resto i dati dell’ISTAT ce lo mostrano. Quelle aziende che chiama “statiche in crisi”, ovvero che hanno subito la crisi senza reagire, coincidono con quelle con meno addetti, in media 6,5. Mentre quelle “proattive sofferenti”, quelle che ugualmente sono state tra le più colpite ma hanno potuto o saputo intraprendere strategie di risposta, hanno mediamente quasi il doppio dei dipendenti 11,2.

E non è probabilmente un caso che le aziende che hanno superato meglio il 2020, quelle che ISTAT chiama “proattive avanzate”, ovvero che hanno addirittura aumentato gli investimenti, siano quelle di gran lunga con il numero maggiore di addetti, 42,7 in media.

Ma forse il dato più interessante è quello che riguarda il costo del lavoro. Nelle aziende che se la sono cavata di più, appunto le “proattive avanzate” e le “proattive in espansione” (queste pur senza incrementare gli investimenti hanno proseguito a crescere come prima) oltre ad esserci più addetti è anche maggiore tale costo – che supera i 40 mila euro a dipendente.

Questo onere non ha però rappresentato un problema. Perché la produttività del lavoro è ancora maggiore, più del 50%, che nelle altre tipologie di imprese. E su queste basi non stupisce il fatto che le imprese più produttive e più grandi siano anche quelle che più dipendono dall’export.


Dati ISTAT

Alla fine si finisce sempre lì, al tema della produttività. Sono le imprese con la produttività più alta quelle che possono crescere, assumere più dipendenti, pagare stipendi più alti, e resistere meglio alle crisi, qualsiasi esse siano.

E se è vero che è naturalmente più facile essere più produttivi in alcuni settori, quelli più vicini alla frontiera tecnologica, i progressi possono esserci, vista la base di partenza, anche in quelli che sembrano essere strutturalmente più svantaggiati, come commercio o ristorazione. L’alternativa è che siano gli eventi a costringere a una maggiore produttività, tramite una brutale selezione darwiniana che elimini le realtà più deboli, come sta avvenendo ancora una volta.

La differenza tra la politica del tirare a campare (senza peraltro riuscirci) e quella vera, del progettare e cambiare, sta in questo: nel non farsi governare dalle crisi, come una nave in mezzo ai flutti, ma nel governarle, anticiparle, se possibile, rinforzando quelle parti della nave che sappiamo essere più fragili. L’Italia ora ha una nuova guida, più esperta, al timone, e anche se la ciurma è la stessa di prima, sperare in meglio è comunque d’obbligo.

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