Nella giornata dell’8 marzo si è celebrato un prevedibile “mea culpa” sul gender gap occupazionale e salariale. Con solo una donna su due che lavora, l’Italia è, in compagnia della Grecia, il fanalino di coda dell’Ue. La concentrazione in alcuni specifici settori (commercio, sanità e assistenza), un ricorso costante al part time (nella maggioranza dei casi involontario), uno scambio obbligato tra maggiore flessibilità e minori retribuzioni e una ripartizione assai poco paritaria del lavoro domestico e di cura nelle famiglie, ha portato il reddito medio delle donne ad essere pari solo al 59,5 per cento di quello degli uomini a livello complessivo, con una oscillazione tra il 50 e il 70 per cento nelle varie classi di reddito.
Questa realtà, che è normalmente presentata come un effetto di una perdurante, implicita o esplicita, discriminazione di genere è però soprattutto una conseguenza prevedibile di scelte politiche precise e non solo (e direi: non tanto) di pregiudizi culturali. Come accade anche nel caso della Grecia, l’Italia è un Paese che ha deliberatamente disinvestito in spese sociali, che avrebbero incentivato il lavoro e il reddito femminile, e ha adottato un modello di welfare prettamente “pensionistico”, che disincentiva l’offerta di lavoro e il dinamismo del sistema economico. Così oggi la Grecia è il Paese che spende di più per pensioni in rapporto al Pil, seguita dall’Italia e la medesima graduatoria viene rispecchiata dai tassi di occupazione femminile: Grecia ultima, e Italia penultima nell’Ue.
Chi denuncia lo scandalo di un welfare antifemminile normalmente però si dimentica di denunciare dove sono finite in Italia quelle risorse che, negli altri paesi europei, hanno migliorato la qualità della vita e del lavoro delle donne. In pensioni, sono finite. In pensioni anticipate per la precisione. E quindi in primo luogo in pensioni di lavoratori uomini, con una carriera lavorativa tipicamente meno discontinua. Negli ultimi 5 anni sono andati mediamente in pensione anticipata più di due uomini per ogni donna, con una tendenza che quota 100 ha pure peggiorato: le donne che ne hanno beneficiato sono meno di un terzo degli uomini.
Mentre la spesa sociale in Italia è su livelli medi europei (al settimo posto in rapporto al Pil e al dodicesimo per spesa pro capite) è la composizione di questa spesa a costituire un’anomalia foriera di pesanti conseguenze sul piano delle pari opportunità di genere. La maggior parte delle prestazioni sociali erogate in Italia riguardano la previdenza sociale (66,3%), il 22,7% prestazioni di tipo sanitario e solo l’11% di assistenza sociale. Per dirla in modo semplice, tutte le spese che dovevano servire alla conciliazione tra attività economiche e familiari sono state per decenni dirottate sul versante pensionistico, cioè in senso stretto dal lavoro (soprattutto femminile) al non lavoro (soprattutto maschile).
Analogo discorso andrebbe fatto rispetto alla spesa sanitaria, che in Italia assorbe meno di un euro su quattro della spesa sociale, mentre in media nell’Ue ne assorbe quasi uno su tre. Queste spese non sono state tagliate dalla cosiddetta “austerità”, ma sono state (anche nell’anno della pandemia!) convertite in anticipi pensionistici. Con un effetto ulteriore sul tasso di attività e di occupazione femminile. Infatti, se non funziona l’assistenza domiciliare per disabili e anziani o mancano i posti letto nelle RSA, chi si occupa di assisterli? Le madri, le figlie, le sorelle…
Se, come ha detto il Presidente del Consiglio nel suo intervento di insediamento, la parità di genere «non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge, ma richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi», occorre tenere presente che in Italia lo svantaggio competitivo delle donne è legato alla struttura del welfare e non a una generica carenza di risorse. E bisognerà ricordarselo tra qualche mese quando, andata a scadenza quota 100, si moltiplicheranno da destra e da sinistra le richieste per rinnovare una misura non solo parassitaria, ma pure, come poche altre, maschilistica.