Il governo Draghi è ormai completo e presenta novità interessanti. Ma oltre ad affrontare una crisi drammatica, riuscirà a porre le basi di una trasformazione economica del paese? Il Presidente del Consiglio ha indicato la strada di una Nuova Ricostruzione e per la prima volta ha parlato di obiettivi di lungo termine.
Una visione condivisa di quello che il paese vuole essere nel 2050 e oltre sembra finalmente un obiettivo possibile. Ma al fine di realizzarlo serve anche una moderna politica industriale di lungo periodo.
Dagli anni ‘90, la politica economica italiana è stata invece principalmente di tipo macroeconomico, fiscale e monetaria, asservita alla risoluzione dell’enorme debito pubblico. Essendo subordinata a questo obiettivo, essa ha danneggiato la pianificazione e l’efficacia delle politiche di sviluppo – per la crescita, l’innovazione e l’avvio di nuovi settori ad alto contenuto tecnologico – e le stesse riforme strutturali, eseguite più per far quadrare i conti e poco per favorire la crescita. Il debito non ha solo causato uno spiazzamento notevole di investimenti privati, ma anche di politiche e cultura di innovazione e sviluppo.
Per stimolare innovazione, quindi nuove imprese e interi settori ad alto valore aggiunto, e risolvere il nanismo delle nostre aziende, si è utilizzata principalmente la leva fiscale e lo strumento legislativo. Aliquota zero se assumi tot persone, capitale a fondo perduto se sei giovane e metti su un’impresa di un certo tipo. Con criteri rigidi e prefissati, a volte controproducenti.
Prendiamo uno dei pochi esempi fuori da questo quadro, i visti per importare imprenditori del settore tecnologico (“startupper” come si chiamano solo in Italia): i risultati sono pessimi. In alcuni casi, le Regioni hanno persino provato a fare i venture capitalist (VC) con risultati deludenti. Nel 2019 il valore degli investimenti VC in Italia è stato di 600 milioni di euro, contro 1,8 miliardi in Spagna, 5 in Francia e 14 nel Regno Unito e 14 la sola New York City. Anche la piccola Danimarca e la disprezzata Romania hanno fatto meglio.
Meglio sarebbe stato se soldi, risorse umane per amministrare, rendicontare ecc. fossero stati spesi per aggiustare strade e ponti. Non è solo a causa della pesante tassazione e dell’austerità che la nostra produttività è rimasta stagnante e il Pil è rimasto al 2001.
Ci diciamo da 30 anni che l’Italia ha un modello di specializzazione sbilanciato su settori maturi, nonostante nicchie di grande eccellenza. Si parla di Green Deal, digitalizzazione: obiettivi impossibili senza una politica industriale tradotta in iniziative e programmi pubblico-privato-accademici, senza esborsi diretti o esenzioni fiscali alle imprese se non in via eccezionale; dedicati a favorire un humus in cui si inventano nuovi prodotti e nascono, muoiono e si rigenerano imprese. Politiche “di contesto” che riducano i rischi (derisking) e aumentino le opportunità di avvio di imprese e investimenti in tecnologia; favoriscano lo spin out di startup dalle università e centri di ricerca, competenze manageriali e di marketing, comunicazione e vendita e l’espansione estera.
Tutti pain points abbastanza diffusi nelle nostre startup e Pmi (non è necessario essere nati da poco per essere innovatori).
In pratica, meno soldi e più mentorship, partenariati pubblico-privati, attività di advisory alle Pmi, accordi internazionali per programmi di scale-up. In sostanza, una serie di interventi per costruire un ecosistema di innovazione nazionale, articolato su ecosistemi locali, che in parte già esistono, e che siano connessi con ecosistemi di altri paesi. Essi devono essere ancorati al “vissuto industriale” locale, senza velleità del tipo “facciamo della Puglia una nuova Silicon Valley”.
Tali ecosistemi sono a loro volta catalizzatori di innovazione nelle imprese mature, piccole e grandi, e nella stessa pubblica amministrazione. La pandemia ha dato un’accelerazione senza precedenti a innovare e digitalizzare. Settori come moda, cibo, turismo, arte, e anche l’agricoltura, possono tutti beneficiare di nuove tecnologie.
Draghi ha giustamente parlato di “co-benefici” come metodo per gli investimenti pubblici e di apporto “più di competenze che finanziario” da parte dei privati. Cioè di soluzioni innovative in campo energetico, di servizi pubblici, di mobilità, e tanto altro, inclusa l’inclusione sociale.
Negli ultimi 15 anni, New York, città con un Pil pari al 40% di quello italiano e un bilancio di 100 miliardi, ha subito una trasformazione drastica: oggi è il secondo hub mondiale di tecnologie, il quarto per le life sciences, il primo per imprenditoria femminile, eclissando Boston e raggiungendo San Francisco. Grazie a una scelta deliberata dalla sua leadership politica, che ha creato una collaborazione sinergica con quella privata e accademica. Soprattutto, devolvendo pochi soldi direttamente alle imprese: se sei imprenditore devi avere skin in the game e stare in piedi con le tue gambe.
Gli investimenti pubblici sono stati importanti, ma come catalizzatori di investimenti privati che sono stati 4 volte tanto. Il programma statale StartUp NY, che consiste in una detassazione totale di chi avvia una startup in zone designate, è stato infatti un flop, a causa della sua rigidità. Senza un ecosistema e un mercato di sbocco dei tuoi prodotti, non c’è detassazione che tenga.
L’intervento pubblico si è concentrato sulla creazione di una fucina di competenze – il campus Cornell-Tech, la Tech Talent Pipeline, CS4ALL (l’insegnamento di informatica nelle scuole pubbliche a partire dai 5 anni, finanziato per metà dai privati); interventi di rigenerazione urbana e rivitalizzazione di asset pubblici abbandonati (i cantieri navali della Marina); costruzione di nuovi spazi per imprese (come l’Alexandria Center per il biotech); programmi di sostegno alle startup come UrbanTech NYC, Futureworks, LifeSciNYC, Venture Fellows; competizioni globali per ottenere soluzioni pubbliche di sostenibilità, mobilità, impatto sociale, accesso alla banda larga.
E soprattutto usando il suo convening power, il potere di mettere attorno al tavolo i vari stakeholders, al fine di creare una sorta di vivaio di imprese (i germogli) che crescono grazie alla collaborazione con le grandi aziende consolidate (gli alberi) come mentor, acquirenti dei loro prodotti e fonti di capitale. Agli inizi, infatti l’ecosistema era fatto di ad-tech, media-tech, fin-tech, health-tech, evolvendosi poi verso altri settori come biotech, cybersecurity, IA, impatto sociale, smart cities.
Si tratta di un modus operandi per cui il settore pubblico fa da abilitante (enabler) del settore privato, con processi applicabili in Italia con i dovuti adattamenti e finora usati molto poco. Inoltre, l’Italia è un Paese molto urbanizzato e trarrebbe beneficio da politiche di sviluppo placed-based (localizzate), fondate su una pianificazione locale urbana/extraurbana in un quadro strategico nazionale.
In questi anni di esperienza sul campo in vari Paesi, solo a New York ho incontrato centinaia di aziende e accompagnato ministri, sindaci e leader pubblici da tutto il mondo. Dall’Italia, forse non a caso, solo i sindaci di Milano.
*L’autore è esperto di innovazione urbana e investimenti esteri. Già capo del commercio estero di New York City e advisor del sindaco.