C’era una volta e forse c’è ancora soprattutto in alcune parti d’Italia, ma in generale un po’ dappertutto, uno dei tanti luoghi comuni che hanno sempre inquinato il discorso pubblico sul mondo del lavoro e l’economia: quello per cui per avere un buon posto non convenisse in fondo studiare, perlomeno non valesse la pena andare all’università, non fosse necessario rimanere sui libri fino a 24-25-27 anni, venendo poi sballottati tra uno stage e un contratto interinale, quando a 18 anni in tanti già lavoravano e potevano essere indipendenti.
Solo nel 2016 aveva fatto un po’ di scalpore, ma neanche troppo in fondo, una pubblicità di un consorzio della bergamasca irrideva chi dopo le medie aveva scelto di studiare altri nove anni e ancora non era autonomo a confronto di chi aveva preso una qualifica a 17 anni e aveva un reddito da molto tempo.
Si trattava del resto di una posizione di comodo per molti. Per quella grande maggioranza di italiani che non avevano fatto l’università, tra cui moltissimi imprenditori, che così trovavano una giustificazione della scelta, ma anche per i tanti giovani laureati che avevano un aggancio per lamentarsi della condizione di precarietà in cui si trovavano subito dopo avere ottenuto il titolo, per il reddito inferiore perlomeno alle aspettative.
E tuttavia come spesso accade la realtà è ben diversa.
Gli ultimi dati dettagliati sulle retribuzioni orarie, risalenti al 2018, confermano quello che ormai negli ultimi anni, in particolare dopo la crisi finanziaria finita nel 2013, era divenuto chiaro. I laureati checché se ne dica guadagnano di più. Studiare conviene.
E anzi, l’istruzione conseguita conta addirittura di più di altri parametri che invece spesso vengono ritenuti più determinanti per il raggiungimento di un buono stipendio in Italia, ovvero l’area geografica di appartenenza e la dimensione dell’azienda.
Secondo questi dati il salario orario anzi appare incredibilmente simile nelle varie macro-regioni italiane a parità di istruzione, ed è quest’ultima che fa la differenza.
Nelle Isole un laureato guadagna mediamente 22,5 euro lordi all’ora, contro i 15,4 percepiti da un diplomato al Nord Ovest o i 12,3 da qualcuno con un’istruzione primaria sempre nella stessa area.
Il gap minore, ma pur sempre rilevante, è al Nordest, l’area dove i laureati guadagnano meno, 20,1 euro all’ora, e non è forse un caso che una volta era soprattutto nel Triveneto che la percentuale di quanti decidevano di proseguire gli studi era superiore.
Dati ISTAT
L’omogeneità dei salari per area può sembrare sorprendente, ma dobbiamo considerare anche due fattori. Da un lato il salario pubblico è più alto di quello privato mediamente, per qualsiasi livello di istruzione, ma soprattutto tra i laureati, 23,9 euro lordi all’ora contro 18,7, e nel Mezzogiorno vi è la maggiore incidenza di lavoro statale in Italia.
E dall’altro in queste statistiche non sono presenti i pesi, ovvero a quanti lavoratori di applicano. È chiaro che se sulla carta un laureato del Sud è pagato come e meglio di uno del Nord nella realtà sono molti di meno quelli che hanno effettivamente un lavoro, essendo i posti disponibili minori e soprattutto in settori in cui l’istruzione richiesta è inferiore.
E questo determina la diversità delle condizioni lavorative reali.
Un altro elemento che contrariamente a quanto si pensa conta in realtà meno di quel che si pensa è la dimensione delle aziende.
È verissimo che quelle più grandi, magari multinazionali, hanno una produttività maggiore e possono pagare stipendi più alti, ma questo si traduce in realtà soprattutto nell’assumere con maggiore frequenza quel segmento di dipendenti che vengono retribuiti meglio, ovvero quelli con una laurea.
Le grandi aziende non pagano mediamente meglio solo perché sono più grandi, ma perché ci lavorano più laureati, riassumendo.
Certo, nel caso delle piccole imprese anche a parità di istruzione il salario è decisamente inferiore, ma un laureato di un’azienda con meno di 50 addetti non prende meno di un diplomato di una con più di 1000.
E chi ha un titolo universitario e sta in una media può arrivare a 22,5 euro all’ora, contro il 15,4 di chi si è fermato al diploma in un’impresa delle stesse dimensioni.
Dati ISTAT
E questo è vero indipendentemente dal genere, anche se rimane meno accentuato tra le donne.
Dati ISTAT
Forse perché le donne sono maggiormente occupate in quei settori in cui il gap relativo all’istruzione è inferiore. Ma pur sempre esistente. Ad esempio nell’ambito delle attività di alloggio e ristorazione.
Al contrario il differenziale è ampio nel settore della manifattura, dove sono decisamente di più gli uomini.
C’è curiosamente un solo ambito in cui conviene non avere studiato, quelle delle attività artistiche e sportive, ma si tratta di una nicchia veramente piccola.
Chi pensa di potersi fermare alle medie perché tanto punta a diventare un calciatore o un cantante nella grandissima parte dei casi, lo sappiamo, fallisce.
Dati ISTAT
Assieme all’istruzione vi è un altro parametro che determina le differenze salariali in Italia, e questo è sicuramente più scontato, l’anzianità. Chi ha più anni di esperienza guadagna di più, soprattutto al Nord. È risaputo in un Paese in cui gli aumenti vengono dati spesso in base a scatti automatici legati al tempo trascorso, in particolare nello Stato, e soprattutto in cui chi è sopra i 50 anni è maggiormente garantito da contratti a tempo indeterminato che tali scatti garantiscono.
Dati ISTAT
L’anzianità è più forte anche del fattore dimensionale, tranne che per chi lavora in una piccola azienda. In questo caso anche dopo più di 35 anni si guadagna meno di chi ha tra 10 e 14 anni di anzianità, ma è occupato in una media e grande impresa.
Dati ISTAT
Ed è probabilmente per questo che molti giovani laureati non percepiscono il vantaggio della propria condizione, perché sono giovani, spesso precari, e a causa del peso del fattore anzianità si ritrovano magari con capi con meno anni di studi ma incarichi e conseguentemente salari decisamente superiori. O coetanei che lavorano da più tempo e solo per questo fatto hanno uno stipendio migliore.
La realtà è che però nel tempo la laurea conta quasi sempre. E forse se le istituzioni e le imprese fanno il proprio dovere su altri versanti, come quello della produttività, l’istruzione è l’unica arma che il singolo futuro lavoratore ha in mano per migliorare il proprio destino.