«Ciao Matteo, come stai?». «Bene, Enrico, e tu?». Porteranno dell’acqua, ci si schiariranno le voci, sorrisetti e imbarazzo. Ci sarà qualcuno a immortalare la scena?
Già, stavolta rivedremo gli ultimi grandi duellanti della politica italiana del XXI secolo, cioè Enrico Letta e Matteo Renzi, di nuovo vis-à-vis, è una gran notizia data domenica dallo stesso neosegretario del Pd ma stranamente ignorata anche da chi ama il “colore” della cronaca.
Nel Paese di Bartali e Coppi, pronto a fabbricare rivalità e accendere le girandole del tifo da stadio, anche la politica ha costruito i suoi più o meno leggendari dualismi, gli Ettore e Achille che nei decenni si sono scontrati nella Dc, nel Pci, poi Ds, poi del Pd, con baruffe epiche nel Psi ante-Craxi e non parliamo poi degli extraparlamentari: è infatti una saga molto in salsa sinistrese quella del duello conradiano – a destra non che non vi siano state rivalità ma prevale l’uomo o donna solo/a al comando, da Almirante a Fini a Meloni, o se volete da Bossi a Salvini, per tacer di Berlusconi – un duello che a sinistra difficilmente finisce nel sangue ma nella cacciata, nella fuga, nella sconfitta dell’uno o dell’altro o persino di entrambi.
Però in un modo o nell’altro quando un duello finisce, finisce. E invece stavolta no. Stavolta ci si rivede, sette anni dopo.
Già, sono passati ben sette anni dal famoso #Enricostaisereno e dal contestuale voto contrario della Direzione del Pd al governo guidato da Letta, sette anni da quella campanella gelata che quest’ultimo consegnò qualche giorno dopo a Renzi senza guardarlo negli occhi, il contrario di quello che fanno i pugili prima che inizi il match, per la semplice ragione che il match era già finito. Eppure, quell’annuncio lettiano – «vedrò Conte, Renzi, Bonelli, Fratoianni», che normalmente sarebbe stato indolore, pressochè di prammatica, è invece una bomba politica, e non certo perché vedrà Conte o Bonelli (di cui, fra parentesi, si erano perse le tracce).
Ma perché dopo sette anni Letta ha pronunciato quel nome – Renzi – in un quadro non ostile, anzi, amichevole, sdoganando in due secondi l’“intruso”, il “traditore”, l’“uomo d’Arabia” davanti agli sguardi in cagnesco di vasta parte del popolo dem incollato allo streaming poco prima del pranzo della domenica, e figuratevi i sostenitori di Goffredo Bettini, quelli che volevano il ritorno di “Nicola” per fare piazza pulita dei cosiddetti “renziani” rimasti al Nazareno mentre Andrea Orlando, togliattiano 2.0, faceva come fece Palmiro con i fascisti, ha amnistiato Renzi: «È utile incontrarlo».
Il confronto Letta-Renzi sarà un fatto politico di prima grandezza. Psicologicamente è come se i due leader uscissero dal letargo di animosità – si passi la contraddizione – che ha contraddistinto il loro rapporto in tutti questi anni e si trovassero insieme a riveder le stelle. Politicamente, è (può essere) la caduta del Muro fra dem e Renzi, condita certo da mille cautele, «è stato solo un primo incontro» eccetera eccetera, ma sarà pur sempre una picconata all’incomunicabilità tinta di disprezzo sorta fra Matteo e il suo ex partito che non lo ha mai perdonato.
Non sapremmo dire se in questi anni Emmanuel Macron abbia incontrato i socialisti che voleva cannibalizzare, in buona parte riuscendoci, cosa che invece non sta minimamente riuscendo a Renzi: e paradossalmente è proprio questo che può riportare i rapporti in un più corretto ambito, senza dannazioni né propositi distruttivi. Chissà chi pagherà di più lo sforzo di incontrare l’altro, un po’ come nei rapporti umani quando s’è rotta un’amicizia o esaurito un amore. Letta ha fatto il primo passo non solo perché è politicamente un freddo laddove l’altro si surriscalda facile, ma per il fatto che lui un’ideuzza ce l’ha, mentre Renzi non si sa.
L’ideuzza del segretario del Pd l’abbiamo già sintetizzata: rifare la Banda – come i Blues Brothers – mettendo insieme una coalizione larga di centrosinistra non imperniata su Conte ma sui contenuti, aperta ai riformisti di Italia viva, Calenda, repubblicani, socialisti, +Europa (qualunque cosa in questo momento voglia dire) e quant’altro si sta muovendo, dall’associazione di Carlo Cottarelli a Base di Marco Bentivogli. Che ne dice Matteo Renzi? Ci si può lavorare, di qui al 2023?
Ma da parte sua il Pd – ribatterà il fiorentino al pisano – la smetterà di inseguire l’avvocato del popolo e considerare il M5s il principale se non l’esclusivo punto di riferimento di un’alleanza definita sin qui “strategica”? Farà i conti con le recenti scelte di appoggio al populismo pentastellato compresa la resistenza ad un nuovo governo che sostituisse il molle esecutivo giallorosso?
È anche probabile che l’ex segretario del Pd dirà al nuovo segretario del Pd che manca ancora molto tempo alle elezioni, ma che comunque si è aperta una fase nuova in cui alla stagnante subalternità del biennio zingarettiano si va sostituendo una fase più dinamica, di apertura. Renzi però ha il non piccolo problema di mettere ordine nel suo campo prima di avventurarsi in nuove strategie, soprattutto se disegnate da altri (non è una cosa che lui sopporta volentieri), ma l’accelerazione di “Enrico” toglie alibi ad ogni melina: i riformisti di centro cosa vogliono fare, come si organizzeranno? Ostacoleranno il ritorno allo schema del bipolarismo ulivista rispolverato da Letta, dunque si batteranno per una legge maggioritaria (come peraltro Renzi ha sempre detto di preferire) o no?
L’aria è buona. Così il capo di Italia viva ieri: «Enrico Letta è rientrato in campo e ha delineato un profilo riformista, molto diverso dal recente passato, a cominciare dalla legge elettorale e dal rapporto con i Cinque Stelle. Vediamo se dalle parole si passerà ai fatti».
Si potrebbe, si dovrebbe, dunque, entrare nel merito. Mandando in soffitta i rancori di sette anni fa, i ricordi di un passaggio convulso e sbrigativamente consegnato alla storia come la pugnalata di Renzi a Letta quando invece si trattò di uno scontro politico che si risolse a favore del primo con il consenso anche della sinistra dem che in quella drammatica riunione scandì con Gianni Cuperlo e Roberto Speranza il de profundis per il governo Letta, mentre lontano da quel consesso, in un letto d’ospedale di Parma, Pier Luigi Bersani aveva la forza di indignarsi con i suoi, colpevoli di assecondare i disegni di Renzi colpendo l’amico Enrico ma non quella di intervenire: già, se non fosse stato per quel maledetto ictus che lo colpì nella sua Piacenza, Bersani forse Letta lo avrebbe salvato, e oggi non staremmo qui a raccontare di una possibile sorprendente riappacificazione, sette anni dopo.