In un’oretta di discorso nella grande sala del Nazareno – la stessa del grande voto contro il suo governo nel 2014 – connesso alla Rete come tutte le centinaia di votanti dell’Assemblea nazionale del Pd chiamata a chiudere la mesta pagina zingarettiana e aprirne una completamente nuova, Enrico Letta ha già cambiato la scena italiana.
Il nuovo segretario (plebiscitato con 860 sì, 2 no e 4 astenuti) ha ridato un senso alla storia di un Pd ridotto a «partito del potere, ma così moriamo», prigioniero di un modello «che non funziona», basato sulle correnti e sostanzialmente privo di strumenti per capire la realtà (di qui le idee di una «Università democratica» e di «Agorà democratiche» aperte agli esterni). Con tranquillità Letta vuole radicalmente cambiare pagina, e vincere “pulito”, nelle urne e non con i giochetti trasformistici annegati nella palude del potere senza idee.
Il senso del “nuovo Pd” è questo: Letta candida il Partito democratico a guidare il Paese dopo le elezioni del 2023 alla testa di una coalizione tutta da inventare: ma nella sua testa il modello è l’amato Ulivo che vinse nel 1996 e poi nel 2006, e quindi bisogna costruire una coalizione che, ecco un accenno nuovo, sarà guidata dal leader del Pd, cioè da Letta medesimo.
Si torna al futuro, dunque, con un Ulivo 2.0 che dovrà fare i conti con un M5s di Giuseppe Conte che ancora non si sa cosa sarà (certo – notiamo noi – è lontanissima la mistica del Conte punto di riferimento dei progressisti, addirittura “federatore” dell’alleanza strategica Pd-M5s) e anche con Matteo Renzi e gli altri leader che il neosegretario incontrerà presto.
È l’Italia bipolare di Letta. Centrosinistra contro centrodestra. Non nomina mai la parola “proporzionale” (saranno su questo le prime polemiche interne?), basta con Porcellum e Rosatellum, sì alla sfiducia costruttiva (e basta con il trasformismo parlamentare): è ipotizzabile – anche se Letta non lo dice – un ritorno al Mattarellum, o qualcosa di simile.
Il nuovo leader dunque relativizza la questione-M5s, abbandona i politicismi della stagione zingarettian-bettiniana e fa capire abbastanza esplicitamente che le ruote del partito si sono drammaticamente sgonfiate. A chi può piacere questo partito che si scalda per ministeri e sottosegretariati? Ma è uno sparare sul quartier generale tutt’altro che “sardinesco” e neppure rottamatore, ma mite e razionale, quello del “segretario di nome Enrico” – frase a effetto – eppure il suo è un ragionare che scombussola le litanie delle ultime noiose assemblee dalle quali si usciva esattamente come si era entrati.
Letta, piuttosto che farla lunga sulla politica politicante (tra l’altro impreziosendo il suo discorso con citazioni di Bergoglio, don Primo Mazzolari, Romano Prodi, Jacques Delors, Jean-Paul Sartre, Luigi Pirandello, Hanna Arendt, l’amato Beniamino Andreatta), ha schierato il Pd, per così dire, faccia a faccia con la realtà del nostro tempo tenendo lo sguardo rivolto oltre il “muro” della pandemia (bello il paragone tra la caduta del Muro di Berlino e “la liberazione” dal Covid), passando in rassegna tutti i grandi temi sui quali peraltro ha affinato una gran conoscenza nei suoi anni parigini da professore a Science Po. E rilanciando una battaglia di civiltà come quella dello Ius soli, che già aizza Salvini contro.
E Draghi? Facile, «è il nostro governo». Caso mai è la Lega che deve spiegare perché ci sta, il che è comunque una notizia «bellissima». Altro che Conte ter. Chi ha voluto capire ha capito. È Draghi che condurrà l’Italia verso «una nuova stagione». Poi, vincendo le elezioni contro Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il Pd governerà l’Italia post-Covid. Con il suo nuovo segretario che già oggi sembrava parlare da premier.