Merrick GarlandComincia l’era del giudice scelto da Biden per guidare in silenzio la Giustizia Usa

Ai tempi di Obama, i repubblicani gli negarono la nomina alla Corte Suprema. Ora gestirà l’inchiesta farlocca del predecessore trumpiano sul Russiagate, ma il suo mandato sarà centrato al contrasto del terrorismo interno

Kevin Dietsch/Pool via AP

Tra le scelte di Joe Biden, spesso elogiate per la loro attenzione alla diversità etnica, quella di Merrick Garland come nuovo procuratore generale non ha avuto la stessa attenzione della stampa internazionale.

Il suo background ebraico, discendente da emigranti fuggiti dalle persecuzioni dell’impero zarista, non ha colpito molto, anche se alle audizioni di febbraio di fronte alla commissione giustizia del Senato ha ricordato il senso del suo abbandonare la prestigiosa posizione di giudice della Corte d’Appello del circuito del District of Columbia per una ben più effimera come quella di nuovo capo della giustizia federale americana, dove è licenziabile dal presidente: «Lo faccio per ridare qualcosa a questo Paese che ci ha accolto e protetto».

Vero è che non parla molto, a differenza di Neera Tanden, scelta dal presidente per guidare l’Ufficio Budget e ritirata dopo che le offese via Twitter fatte in passato nei confronti di diversi esponenti repubblicani centristi.

Non parla molto non soltanto perché ritiene che per un giudice federale sia meglio esprimersi mediante sentenze anziché con dichiarazioni alla stampa, ma anche perché non gliene venne data occasione nel febbraio 2016, quando Barack Obama lo nominò per la Corte Suprema e i repubblicani guidati al Senato da Mitch McConnell, decisero di non concedere nemmeno un’audizione, con la capziosa motivazione che era anno di elezioni.

Ragione prontamente ritirata lo scorso anno, quando morì l’icona liberal Ruth Bader Ginsburg e Trump la sostituì a spron battuto con la giudice conservatrice Amy Coney Barrett.

Ma quest’attesa, come ha scritto il Washington Post, è valsa la pena. Non soltanto per il suo equilibrio, che viene riconosciuto anche da accesi sostenitori del populismo trumpiano come i senatori Ron Johnson e Lindsey Graham. Ma anche per la chiarezza dei concetti espressi.

Ad esempio contro la capziosità del senatore Josh Hawley, a sua volta ex docente della Missouri School of Law, che paragonava a favor di camera i rivoltosi del 6 gennaio da lui sostenuti fino a un minuto prima dell’assalto al Campidoglio ai manifestanti di Antifa e di Black Lives Matter per i danneggiamenti di edifici federali e per il ferimento di alcuni poliziotti. Per Garland, entrambi sono atti criminali. Ma soltanto uno è un attentato a un processo costituzionale.

Per quanto riguarda invece uno degli slogan più infelici del movimento per la giustizia razziale, quel “Defund the Police” brandito in campagna elettorale come segno di un potenziale collasso dell’ordine pubblico per mano dei democratici, Garland risponde che non bisogna togliere i fondi o abolirla, ma tenere sotto controllo alcune pratiche che colpiscono indiscriminatamente alcune minoranze, come ad esempio il perseguimento di crimini non violenti legati al possesso e allo spaccio di droghe leggere.

Il procuratore generale ha semplicemente affermato che «ci sono modi migliori di impiegare le risorse del Dipartimento di giustizia».

Non vengono tralasciate anche altre questioni scottanti, come l’indagine sulle origini del Russiagate aperta dal suo predecessore William Barr: «Non ci sono ragioni per chiuderla».

Nessuna indulgenza neanche sul coinvolgimento di Hunter Biden con l’Ucraina, motivo per cui è sfumata la nomina nel Dipartimento di un amico personale di Joe Biden come l’ex senatore dell’Alabama Doug Jones.

Ma il vero pilastro dell’azione di Garland sarà uno e uno soltanto: la lotta al terrorismo interno. Citando la prima ragione della fondazione del Dipartimento nel 1871: la difesa dei diritti civili degli afroamericani appena liberati dalla schiavitù contro i soprusi del primo Ku Klux Klan.

Se allora la minaccia era confinata negli stati dell’ex Confederazione sudista, adesso è diffusa e ramificata fino ad alti livelli: sono forti i sospetti sulla deputata Lauren Boebert, che avrebbe dato indicazioni a un gruppo di estremisti il giorno prima dell’assalto, e anche durante quelle ore, indicando la posizione della speaker della Camera Nancy Pelosi su Twitter, come ad avvertire i suoi seguaci. Ma anche gli infiltrati nella polizia e nelle forze armate, che hanno richiesto un supplemento d’indagine per scegliere il personale per difendere l’inaugurazione di Joe Biden lo scorso gennaio.

Una minaccia quindi potenzialmente mortale per la democrazia americana che ha legami anche con politici eletti e che quindi deve essere affrontata al di sopra di ogni sospetto, abbandonando la politicizzazione degli anni di Trump, dove Barr veniva definito “Hatchet man”, uomo accetta dellex presidente contro gli oppositori e dove ha agito per lungo tempo come suo avvocato personale, così come il suo predecessore Jeff Sessions, già noto per essere stato il primo sostenitore al Senato di Donald Trump.

Il suo modello è la compianta Janet Reno che rimase nella carica per tutti i due mandati di Bill Clinton, perseguendo con successo gli estremisti bianchi colpevoli dell’attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, ma rimanendo sempre a debita distanza dal presidente Bill Clinton, rifiutando sempre riunioni a porte chiuse alla Casa Bianca.

Per cestinare definitivamente la preferenza trumpiana per la lealtà personale rispetto all’onestà. Ma per superare anche la concezione militante di giustizia degli anni di Barack Obama.

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