Lezioni per WashingtonCosa possono imparare gli Stati Uniti dal Giappone per affrontare l’ascesa cinese

Lo storico partner di Washington ha approfittato del disimpegno in politica estera di Donald Trump per imporsi come colonna portante del multilateralismo democratico nella regione. Un articolo di Foreign Affairs spiega che l’amministrazione Biden dovrà mettersi al seguito di Tokyo per ripristinare la sua credibilità nell’area

Lapresse

A metà marzo il segretario di Stato americano Antony Blinken e il segretario alla Difesa Lloyd Austin andranno in Giappone e Corea del Sud alla fine del mese: sarà il primo viaggio internazionale dei funzionari dell’amministrazione di Joe Biden.

Tra i principali argomenti sul tavolo di saranno il rafforzamento delle alleanze con i due Paesi asiatici, lo sforzo per la denuclearizzare della Corea del Nord, e con buona probabilità anche il dossier cinese: lo stesso Blinken nelle ultime settimane ha definito il rapporto con Pechino come «il più grande test geopolitico del ventunesimo secolo», e che questa sfida va affrontata «con alleati e partner».

Negli ultimi anni, mentre gli Stati Uniti guidati da Donald Trump rimodulavano le loro relazioni con molti Paesi alleati, il Giappone si è eretto ad avamposto dell’internazionalismo liberale in Asia. Non è solo un discorso di forza economica o di forza politica. In un certo senso Tokyo ha fatto le veci di Washington nell’area del Pacifico in attesa di un cambio alla Casa Bianca: con Shinzo Abe alla presidenza il Giappone si è fatto promotore dei valori liberali in ambito commerciale, legislativo e sulla sicurezza; ha contribuito a sviluppare un’idea di mondo libero e aperto nella regione dell’Indo-Pacifico partendo dai principi dello stato di diritto, della libertà di navigazione e della libera impresa.

Sul ruolo del Giappone in quel quadrante del mondo ha pubblicato un lungo articolo Foreign Affairs, firmato da Chang Che (giornalista con sede a Shanghai).

Nella sua analisi, l’autore ricorda come nel 2019, al vertice del G-20 di Osaka, Abe abbia dato un contributo significativo alle norme internazionali della governance digitale entrando in contrasto con la visione cinese della cosiddetta sovranità informatica, delineando un futuro in cui i dati possono fluire liberamente e in sicurezza attraverso scavalcando i confini nazionali.

Ma non solo: Tokyo ha anche approfondito i legami con i suoi vicini, ha ampliato le iniziative multilaterali, e «con una combinazione di buon tempismo, leadership e innovazione, la nazione insulare si è dimostrata non solo un partner affidabile per gli Stati Uniti e i suoi alleati, ma proprio come architetto dell’emergente ordine liberale della regione», scrive Chang Che.

La recente ascesa del Giappone nel ruolo di garante delle libertà nella regione – sebbene offuscata dalle più mediatiche dichiarazioni del governo cinese e delle provocazioni nordcoreane – può diventare un utile strumento di politica estera per gli Stati Uniti: Tokyo è diventato la chiave di volta per ripristinare la credibilità americana in Asia.

«Solo consolidando le relazioni con l’alleato asiatico di lunga data e collaborando agli sforzi multilaterali – si legge nell’articolo – gli Stati Uniti possono riparare la loro reputazione danneggiata nell’Indo-Pacifico e riguadagnare un punto d’appoggio nel futuro della regione. Anche perché nel frattempo Trump ha intaccato la posizione di Washington e Biden dovrà rimettere a posto i cocci».

La storia dell’arcipelago del Pacifico nella seconda metà del Novecento può essere immaginata come una linea retta che parte da un punto molto in basso e segna una crescita costante verso l’alto. Nei primi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale il Giappone è rimasto una figura piuttosto marginale in politica estera. Colpa soprattutto degli obblighi derivanti dai trattati del Dopoguerra, con un ruolo mai proattivo, in quella che stata ribattezzata “diplomazia del karaoke”: l’espressione usata per indicare una Tokyo costretta a cantare sulla melodia scelta da Washington.

Negli anni ‘60 e ‘70 è iniziata la scalata, fino a rendere il Giappone la seconda economia più grande del mondo. Così negli anni ‘90, con il crollo dell’Unione Sovietica e l’impegno nella prima guerra del Golfo, Washington si convinse rapidamente a conferire al suo alleato il ruolo di garante della sicurezza in Asia, almeno nella sua regione.

Poi nel primo decennio del nuovo secolo la musica è cambiata ancora, racconta Chang Che su Foreign Affairs: «Una nuova politica nazionalista guidata dal primo ministro Junichiro Koizumi e successivamente dal primo ministro Shinzo Abe ha portato il Giappone a consolidare il potere, rafforzato le capacità di autodifesa della nazione e consolidare il ramo esecutivo del governo a scapito delle potenti burocrazie del Paese. Infine nel 2015 il parlamento ha approvato una legge che reinterpreta la costituzione per consentire ai militari del Paese di impegnarsi nell’autodifesa collettiva ai sensi della Carta delle Nazioni Unite».

Dal 2017 in poi la figura del Giappone come avamposto del mondo liberale in Asia ha dovuto tener conto delle decisioni fuori dagli schemi di Donald Trump. L’ex presidente americano è uscito dal Trans-Pacific Partnership, l’accordo voluto dal suo predecessore Barack Obama, lasciando un vuoto dietro di sé. Il disimpegno di Washington ha liberato il campo a Tokyo, che ha potuto salvare l’accordo convincendo i restanti Paesi ad andare avanti con una nuova versione del trattato: adesso è il “Trattato globale e progressivo per il partenariato trans-pacifico” (Cptpp).

Il nuovo accordo ha stabilito nuove regole su commercio, proprietà intellettuale e governance dei dati, tutto in netto contrasto con la visione illiberale della Cina. Lo stesso Biden ha già fatto sapere che la sua amministrazione è interessata all’adesione del Cptpp – anche se oggi non è scontato che entri nell’accordo: se dovesse farlo dimostrerebbe l’intenzione di riporate gli Stati Uniti all’interno di un sistema commerciale internazionale liberale di cui il Giappone è diventato non solo il simbolo, ma anche la colonna portante.

«Con una strategia di politica estera basata su trasparenza, sostenibilità ambientale e responsabilità, il programma giapponese si pone in netto contrasto con la ben più opaca Belt and Road Initiative della Cina. Così mentre gli sforzi di finanziamento di Pechino hanno prodotto anche dei ritorni d’immagine negativi, la strategia di Tokyo sembra tradursi sempre in una vera fiducia: in un sondaggio del 2019 commissionato dal Ministero degli Affari Esteri del Giappone, oltre il 90% degli intervistati nei dieci Paesi che compongono l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico hanno descritto il Giappone come “amichevole” e “affidabile”», si legge su Foreign Affairs.

Ora dopo quattro anni con Trump alla Casa Bianca in Asia gli Stati Uniti non sono necessariamente percepiti come il principale difensore dell’ordine liberale. L’amministrazione Biden deve ripartire da qui: avrà un approccio più discreto nelle relazioni internazionali, nel tentativo di ripristinare la credibilità e la leadership degli Stati Uniti. Nell’area del Pacifico proverà a rinsaldare le relazioni con il Giappone e coordinarsi sulle sue iniziative multilaterali regionali.

Il primo ministro Yoshihide Suga, uno degli epigoni politici di Abe insediatosi a settembre, ha già chiarito che intende proseguire nel solco tracciato dal suo predecessore. Allora, come suggerisce Chang Che nel suo articolo, «gli Stati Uniti dovranno fare qualcosa a cui non sono abituati in politica estera: prendere spunto da un’altra nazione. Ma dopo gli ultimi quattro anni sembra una scelta obbligata. La sala karaoke Indo-Pacifica è ancora aperta agli americani, ma ora è il Giappone a scegliere la canzone».

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