Fa un rumore strano, lo scarpino del ciclista, quando picchia sull’asfalto. È un suono asimmetrico e zoppo, colpa delle placchette sotto la suola. Miguel Indurain non l’aveva mai ascoltato prima della fine di una gara. Mai, prima della fine.
Settembre, in Spagna, sa essere infuocato come un luglio qualunque. Ma quando gronda umidità come una spugna strizzata, le ossa del vecchio campione possono soffrirne. Succede di colpo, la fine non è abituata a farsi annunciare, non ha valletti, sbriga da sé il suo sporco lavoro.
«Nel mezzo della corsa, all’improvviso, ti sentirai stranamente solo: come un re in battaglia che, voltandosi indietro per impartire gli ordini, non scorge più il suo esercito, dissoltosi per incantesimo nel nulla. Questo momento terribile verrà. Ma quando?» Lo scrisse Dino Buzzati, all’inseguimento di segni e incubi lungo la strada dei ciclisti. Questo terribile momento verrà.
La Vuelta è aria di casa, per Miguel Indurain, campione olimpico a cronometro. Un giorno come quello di Atlanta non credeva più di prenderselo.
Accade il 3 agosto 1996, una quarantina di giorni prima: lui vince davanti a Olano e Boardman. Olano, colui che nel 1995 gli aveva tolto da sotto il naso la maglia iridata su strada; Boardman, quello del record dell’ora. Ma in America, Indurain è riuscito ad arrampicarsi sulle pareti del pozzo. Dodici secondi in meno di Olano dopo cinquantadue chilometri, appena un sospiro, quanto basta per la medaglia d’oro. Vai sul podio, ti metti la mano sul cuore, ascolti l’inno spagnolo e capisci che la tua storia è compiuta.
Lo capisci senza tante storie, senza enfasi, perché tu sei fatto così. Un uomo semplice, serio, forse un po’ severo. Un uomo tranquillo.
Eppure era proprio questo, di Miguel Indurain, che non piaceva a tutti: troppo normale negli atteggiamenti, lui che invece in bicicletta era Superman. Ma Indurain voleva la libertà di togliersi la maschera da eroe, e appoggiarla sul comodino. Mai una parola che non fosse prevista, mai una polemica, mai un gesto esagerato. «Il mio mestiere è vincere, ma so che devono vincere anche gli altri».
Così, senza ingordigia, si prendeva il Tour de France (cinque volte dal 1991 al 1995), senza interessarsi alle tappe. Avido solo del tempo, gli bastavano le cronometro per rubarlo tutto, e il resto della corsa era difendersi. Mai nessun ciclista ha vinto il Tour pesando tanto (ottanta chili) ed essendo così alto (un metro e ottantotto), ed è stato come trascinare massi sulla cima della montagna.
Miguelón se li metteva nello zaino e via, metro dopo metro, la schiena un po’ sollevata con il suo inconfondibile stile. Un motore prodigioso, costruito per sviluppare potenza. E quando la strada tornava a scivolare come un tappeto verso l’orizzonte, nessuno al mondo pedalava così. Perfetto in pianura, immobile e aerodinamico, rotondo e fluido in ogni gesto.
Non si arrabbiava mai. Anzi sì, una volta: quando un comico televisivo, al Giro d’Italia, per uno sketch cercò di sgonfiargli una gomma. Non si scherza con il lavoro, disse Miguel, furente. Per il resto, una sfinge.
«Vedi sul giornale una foto di Indurain e non sai se gliel’hanno scattata alla partenza o dopo l’arrivo», spiegò Thierry Marie, una volpe di corridore. Impossibile decifrare i segni della fatica sul volto del Navarro, incorniciato da capelli nerissimi. Pareva non soffrire mai, perché aveva capacità di recupero prodigiose e un cuore da museo della scienza: 28 battiti a riposo, uno ogni due secondi; Fausto Coppi – che pure era un fenomenale bradicardico – arrivava a 40, Merckx a 44. Dopo uno sforzo, le pulsazioni di Indurain scendevano da 160 a 60 in mezzo minuto; gli altri erano ancora in affanno, e lui già pronto a scattare.
Perché certi fuoriclasse devono ringraziare soprattutto la natura per i doni ricevuti: il cuore di Miguel, enorme, pompava 500 centimetri cubi di sangue a pulsazione, facendo circolare 50 litri al minuto, circa il doppio di una persona normale. Strabiliante anche la capacità polmonare: 7,8 litri, contro i 5,8 di un buon sportivo.
Inoltre, Indurain trasferiva ossigeno ai muscoli in brevissimo tempo (88 millilitri per ogni chilo di peso corporeo al minuto), aveva 550 watt di potenza alla «soglia anaerobica», senza che i muscoli venissero intossicati dall’acido lattico. E mai un malanno, neppure un raffreddore, durante i cinque Tour vinti: 115 giorni di gara in perfetta forma. Anche così si spiega un fenomeno.
Ma arriva comunque il giorno in cui l’esercito svanisce nel nulla, alle spalle del re. Era già successo, in quel 1996, il 6 luglio, quando il Tour salì a Les Arcs. Sembrava una tappa dura ma normale, di quelle che Indurain aveva sempre gestito senza intralci.
Un occhio alla classifica e un altro, quasi distratto, ai fuggiaschi di giornata, gli arrampicatori in cerca di gloria. Per nulla al mondo Miguelón avrebbe impedito loro di raccoglierla in cima alla vetta, come una stella alpina protesa sull’abisso. A lui bastava la classifica generale, perciò non aveva nemici in gruppo. Un sovrano, Miguel Indurain, non un despota sanguinario. Ma quel pomeriggio qualcosa non funzionò.
Forse la respirazione, forse fu la sete: a un certo punto, già scivolato lontano dai primi, Indurain comincia a voltarsi in cerca dell’ammiraglia e di una borraccia. Mima il gesto di una bottiglia che versa dell’acqua invisibile, è quasi grottesco quel suo essere così scomposto. Qualcuno pensa: «Finalmente, anche Miguel Indurain è umano!» Ma lui lo è per altre cose, per come ha sempre vissuto la grandezza sportiva senza enfasi.
Scrisse «El País», dopo il quinto Tour consecutivo: «In un Paese come il nostro, tanto portato alla logorrea, ai gesti fatui e al protagonismo urlato e triviale, la fatica professionale di questo uomo tranquillo, che è entrato nella gloria del ciclismo ed è senza dubbio il miglior sportivo spagnolo di tutti i tempi, è semplicemente causa di orgoglio. […] Si indovina una morale dello sforzo, una vocazione al rigore e al superamento personale, nonché una sobrietà e una modestia che potevano sembrare valori ormai estinti». Quasi un’orazione civile.
Davvero, questo navarro figlio di umili contadini del villaggio di Villava, è riuscito a rovesciare molti cliché. Ad esempio, il ritratto classico dello spagnolo in biciclet-ta, scalatore nervoso, leggero come un camoscio, amante delle vette e impacciato in pianura. Il ciclista tutto estro e cuore, capace di grandi voli e precipitose cadute, sempre attore drammatico e mai interprete freddo, misurato.
Miguel Indurain ha scelto la normalità. Non si può essere come non si è. «Il Signore moltiplicò i pani e i pesci perché non aveva scelta, non per darsi delle arie», dice Miguel.
In bicicletta somigliava ad Anquetil (che pure era personaggio mondano) per stile e strategia. Quasi gemelli, i due, nella grandezza a cronometro e nella gestione delle salite, il territorio altrui. Il francese era più leggero e «morbido» in corsa, più etereo anche nell’immagine; più terreno e possente il Navarro.
Eccolo però quasi gonfio, nella tappa calvario di Les Arcs. Sale che sembra ingrassato in pochi metri, è il peso della sua pedalata a deformarlo, sono le gambe sudate e la bocca che si apre e chiude a scatti, cercando prima aria e poi acqua. Indurain ha messo il rapportino corto, i pedali girano e lui sta quasi fermo, si è imballato ma deve pur arrivare in fondo.
Le crisi dei grandi corridori si assomigliano tutte, sono evento raro e dunque memorabile, è come se il corpo del campione non gli appartenesse più e fosse la zavorra di un altro. I lineamenti del viso, pure quelli cambiano. Nella crisi, l’asso è il gemello sconosciuto di se stesso.
Anche se Miguel l’aveva veramente un fratello, in mezzo al gruppo. Come Coppi. Un fratello chiamato Prudencio, nome che sarebbe stato assai più adatto a Miguel. «In corsa siamo solo compagni però la sera, in camera, possiamo parlare della nostra famiglia, della casa, del paese, e allora la nostalgia è meno forte.» Neppure Prudencio, nella tappa dell’improvviso crollo, può fare nulla.
Alla fine, quel Tour lo vincerà il danese Riis, che qualche anno dopo rivelerà di essersi dopato: con i ciclisti non si sa mai. Non era un fenomeno, Riis, e nel motore aveva benzina truccata. Non sono stati dei mostri neppure i corridori che Indurain ha battuto in quei cinque trionfi francesi: Bugno, Chiappucci, Rominger, Ugrumov e Zülle.
Secondo alcuni, la grandezza di Indurain va tarata anche sull’assenza del vero, grande rivale. E va ridimensionata per la mancanza di successi nelle classiche, che pure Miguel avrebbe potuto vincere, specialmente le più lunghe e impegnative: la Roubaix, il Lombardia, il Fiandre, forse la stessa Sanremo. Invece, solo due secondi posti al mondiale, nel 1993 dietro un giovanissimo Armstrong e nel 1995 dietro Olano, oltre al terzo posto di Stoccarda 1991, dove vinse Bugno. Ma Indurain era programmato per il Tour e basta, proprio come Lance Armstrong che da lui raccolse il testimone.
«Tu semini e raccogli, rispettando il buono e il cattivo tempo, il sole e i temporali: me l’ha insegnato mio padre, perché la bicicletta è come la campagna.» La moglie Marisa, il fratello Prudencio, i genitori contadini, la fattoria alla Cuenca, vicino a Pamplona, duecento ettari coltivati a cereali, i tre figli Miguelito, Anna e Jon, il suo negozio di biciclette, l’aria da bravo ragazzo anche adesso che fa il commentatore televisivo.
Chi lo conosce, giura che è lo stesso di quand’era bambino e vinse a undici anni la prima corsa in bici per i colori del Club Ciclista Villavés: «Un bocadillo y una Fanta, y eso me gustó» (un panino e una Fanta sono bastati a farmi contento: questo il premio per la vittoria che inaugurò la serie, in totale le vittorie da professionista saranno 111). E mai un’impresa clamorosa, mai una concessione alla platea. Perché, Miguel? «Perché bucare il muro con un dito, se hanno inventato il trapano?»
Ogni tanto, qualche dubbio. «Scendo di sella, mi guardo le mani che hanno stretto il manubrio e mi dico che con quelle mani non ho costruito niente che durerà, nessuna cosa, nessun oggetto».
Ma anche vincere, anche dannarsi in bicicletta è costruire. Anche lanciarsi sulla pianura come su una tavola apparecchiata, per mangiarsi strada e tempo. Se poi quella strada sale, qualcosa accadrà, ci sarà modo di vincere ugualmente. Lo ripete, Miguel, anche il 20 settembre 1996, tredicesima tappa della Vuelta.
Qualche giorno prima, come al Tour di luglio, aveva un po’ annaspato in montagna, sull’Alto del Naranco, dove in pochi metri aveva perso più di un minuto da Zülle, antico rivale, non certo uno scalatore.
Ma oggi, sulla salita di Lagos de Covadonga, dopo un lento penare sull’Alto de Mirador del Fito (in Spagna, persino le anonime gobbe portano nomi altisonanti), la crisi è stata completa, assoluta. Una cosa mai vista, come se il ricordo della medaglia d’oro olimpica fosse precipitato indietro di millenni, per non dire le gialle cavalcate al Tour.
Il re ha ancora un esercito attorno a lui, o quanto ne resta, ma con la mano fa segno ai compagni di andare, è finita, non ha più bisogno di loro. Quasi non respira. Si vede che Miguel non sta bene: è il malanno di un giorno, oppure la meravigliosa storia si chiude? Ora Indurain è in fondo al gruppetto degli staccati, corridore qualunque.
Nella cronometro di Avila, qualche giorno prima, ha preso freddo; e lui, che non si ammalava mai, ha cominciato a tossire. La gola brucia, le gambe di piombo. La memoria, qualcosa da cancellare. Il tempo, il ritmo dei giorni, c’è una stagione per tutto. Gli uomini semplici lo sanno. Quel tempo verrà, ma quando?
Ed è così che il Navarro si ritira a venticinque chilometri dall’arrivo: non ci saranno altre occasioni. È così, con la stessa naturalezza di quando trionfava, un attimo e un secolo fa, che Miguel Angel Indurain Larraya, nato a Villava il 16 luglio 1964, corridore ciclista tra i più grandi della storia, tira le leve dei freni e scende di sella. Sull’asfalto, un rumore di passi asimmetrico. Tutta la vita lo è.
da “Campionissimi. Un giorno nella vita di trenta grandi ciclisti”, di Maurizio Crosetti, Baldini + Castoldi, 2021, pagine 260, euro 16.00