«Un tempo il mio sguardo veniva condizionato dai sogni, dalla superficie emotiva, dove il punto focale era l’indagine sulla mia identità e su ciò che rappresentava il reale per me. A oggi il mio tentativo secondo è di catturare la struttura dell’identità universale attraverso l’esperienza sensibile. Mi pongo una domanda: che cosa è il reale?».
Queste parole sono di Nerina Toci, fotografa nata a Tirana, in Albania, nel 1988, ma da molti anni in Sicilia (sua terra d’adozione) e considerata tra le più interessanti giovani fotografe contemporanee.
Con queste parole prova a raccontare la recente uscita del suo nuovo libro fotografico, “Un seme di collina” (pagine 178, euro 30), curato da Davide di Maggio ed edito da Fondazione Mudima, con contributi di Achille Bonito Oliva, Lorand Hegyi e Dominique Stella, oltre a uno scritto della stessa Toci.
Il libro è una sorta di seme, appunto, per qualcosa di più ampio, che comprende una selezione di fotografie realizzate tra il 2017 e il 2020 in Sicilia, principalmente sui monti Nebrodi, e che nasce da una ben precisa esigenza di definizione del reale.
Raccoglie un intenso lavoro di ricerca che esemplifica al massimo l’evoluzione artistica della fotografa: dopo aver gradualmente eliminato la propria figura dagli scatti, Toci cerca infatti di catturare l’identità universale attraverso l’esperienza del sensibile, sviluppando al contempo un interesse di tipo antropologico e una costante riflessione sulla figura femminile, sul senso del luogo e del confine, spostando in questo modo la funzione della fotografia da estetica a reale.
«L’idea per questo progetto – racconta – è nata dopo aver conosciuto questa donna meravigliosa che si chiama Marianna; il mio sguardo si è posato e ho deciso di sviare dalla strada più sicura, provando a non rapportarmi più solo con me stessa, ma con la storia degli altri. L’ho fotografata per circa quattro anni, ma qui non viene rappresentata solo la sua storia, perché lei in qualche modo era una parte che completava ciò che ero io e per questa ragione avrebbe potuto essere qualsiasi altra persona».
Nelle foto di Nerina Toci un ruolo centrale riguarda, come anticipato, la sua terra di adozione, la Sicilia, ma insieme al rapporto con il territorio emergono anche tutta la sensualità e il mistero, l’inquietudine e la grazia, che il bianco e nero in qualche modo amplifica: «La scelta del bianco e nero – spiega Toci – è da sempre legata a quello che cerco di raccontare attraverso il contenitore delle emozioni. Nel mio lavoro cerco di sviluppare ciò che scatena ogni cosa e ciò che irrompe e si ricompatta. Nel processo creativo il bianco e nero fa parte delle stesse emozioni; è come se fosse l’origine di un discorso, anche se di solito fotografo prima a colori e dopo passo al bianco e nero. Riguardo alla Sicilia, invece, continuo a fotografarla perché la trovo calda, decadente, ed esprime pienamente il sentimento che mi porto dentro. Ecco perché ho sempre fotografato in questo ambiente».
Nel paesaggio di Nerina Toci si esprime quindi la sua narrazione, il suo mondo (tutto al femminile), in cui il corpo è protagonista e in cui – come scrive Dominique Stella nell’introduzione – «la donna si espone allo sguardo del mondo, rimane immobile sul “palco”, lasciata in balia delle sue nudità, incarnazione di un personaggio, tra fiaba e realtà, aperta al gioco, al sacrificio, al surreale».
Ed è in effetti proprio il surreale che si frappone tra l’estasi e il desiderio di spiegare il tutto: «A volte», dice ancora Toci, «semplicemente non sappiamo il perché delle cose, ma accadono e basta. Io non riesco fino alla fine a spiegare il mio lavoro. La cosa principale nella vita, per me, è lavorare e non stare per forza a cercare di comprendere ciò che accade, non provare sempre a dare un senso a ogni cosa. Quando inizio un progetto prendo molti appunti, quasi come fosse una forma di prosa, anche se non sono una scrittrice, e infatti nel volume c’è infine un seme di collina; il titolo nasce da quel testo, perché in qualche modo credo rappresenti la vita e la possibile nascita della stessa».
Una nascita che ha a che fare anche con la fotografia e con ciò che rappresenta per Nerina Toci: «Sento che fotografare mi ha aperto le porte della coscienza. È qualcosa di fondamentale, mi permette l’espressione ed è qualcosa che mi porta oltre, come una sorta di contenitore di emozioni. È iniziato nel 2015: facevo una passeggiata con un amico e a un certo punto vedo uno di quei negozi in cui si vende un po’ di tutto. Lì in mezzo scorgo una macchina fotografica e dico al mio amico di fermarsi, perché voglio comprarla. Così è stato. Ne ho presa una piccola, di quelle compatte, ed è partito tutto da una foto su un taglio di capelli», per proseguire e arrivare a far sì che la macchina fotografica, come dicono molti fotografi, fosse semplicemente un mezzo per esprimere quello che per un fotografo è tendenzialmente impossibile, ovvero uscire dalla realtà circostante per addentrarsi in una personale e universale insieme.
Davide di Maggio, curatore del volume, dice di lei: «Il fotografo blocca un istante in eterno, lei apre quell’istante all’infinito. Le sue fotografie non hanno a che fare con l’effimero della nostra società, ma hanno piuttosto quella “perennità” delle opere che si tramandano nel tempo. Il tempo non è un limite ma diventa suo alleato».
Un alleato potente, capace di trasmettere immagini senza tempo, come le prime di una serie fatta di piccole cose, dettagli, frammenti, particolari intimi e quotidiani, espressioni di fragilità o solennità, in un linguaggio in cui l’umano e l’umanità sono centrali e nel quale, proprio per via di questa centralità, la cornice non può essere contenitiva, ma complessa, contaminata, variegata, nuda e libera, oltre che coraggiosa, a tratti inconsapevole e vibrante di esistenza, strabordante di emozioni.