Stato facilitatoreCome usare il Next Generation Eu per riattivare il modello di sviluppo italiano

I fondi europei non bastano da soli a rigenerare un sistema stagnante. Ma possono far ripartire dinamiche e soggetti in grado di far muovere il Paese: valorizzando gli investimenti privati si possono creare hub di intelligenza collettiva capaci di replicare quelle (poche) storie di successo che si sono dimostrate resistenti alla crisi

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Qual è la condizione imprescindibile per realizzare un piano di sviluppo nazionale efficace e centrato, con una giusta messa a fuoco della realtà? Non è semplice capire verso cosa sarebbe opportuno che tendesse la strategia italiana per ottimizzare gli investimenti del Next Generation Eu. Ma se non altro potrebbe risultare utile fare un’analisi avvalendosi di tre parametri specifici: lo stato di coesione socio-territoriale del Paese, le succes stories nostrane in tema di resilienza alla congiuntura negativa e l’orientamento internazionale in ambito di sviluppo.

Partiamo dalla coesione socio-territoriale del Paese: la pandemia e i suoi effetti collaterali hanno ulteriormente marginalizzato coloro che abitano in territori periferici e in aree interne. È altrettanto vero però che le crisi sono fonte di resilienza da parte di coloro che cercano di cavalcarle per non essere disarcionati.

In tal senso, basta leggere il Rapporto “Leader della crescita 2021” del Sole 24 ore per capire che il parametro della resilienza, racconta di aziende, agili, tecnologiche e sostenibili che nei territori si mettono di traverso rispetto alla congiuntura negativa abilitando progetti sociali di successo e perciò “facendo comunità” dove più serve. 

A conferma che a valle del sistema c’è vita, si può leggere il parametro internazionale: le ultime elaborazioni internazionali rivelano che lo sviluppo decentrato e il capitalismo di comunità non si riducono a un fuoco di paglia italiano; non a caso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha sostenuto di recente che 100 dei 169 target al Sustainable Development Goals non potranno essere raggiunti senza un effettivo coinvolgimento dei governi locali.

Tre elementi forse non faranno una prova, ma sicuramente danno preziose indicazioni da dove ripartire.

Altro parametro da ponderare al fine di capire come ci si potrebbe muovere è l’entità delle risorse a disposizione. Ovviamente 209 miliardi di euro non bastano per rigenerare un modello di sviluppo, ma sono abbastanza per facilitare chi nel medio periodo può farlo: il capitale privato.

In grande sintesi la realtà sembra dare due riscontri ben precisi rispetto a questa importante stagione europea d’investimenti: la necessità di uno Stato che si cali nel ruolo del facilitatore; la coscienza di dover attuare una strategia volta a valorizzare quanto di buono c’è a valle del sistema.

In che modo può realizzarsi tutto ciò? Sul piano teorico, gemmando dalle succes stories nate sul territorio gli ecosistemi necessari ad attrarre l’investimento privato.

Sul piano pratico, finanziando su tutto il territorio la creazione di hub d’intelligenza collettiva volti a connettere enti locali, comunità montane, autonomie funzionali, università, centri di ricerca e soggetti privati al fine di generare un processo di sviluppo condiviso.

Realizzazione non particolarmente complicata dal momento che modelli che funzionano sul territorio italiano già ci sono (ad esempio Carpi): il tutto sta a replicarli facendo in modo che quella che è oggi l’eccezione diventi presto la regola.

Al fine di abilitare i territori a diventare hub d’intelligenza collettiva si potrebbero predisporre alcuni strumenti specifici: piattaforme digitali in grado di assicurare la fruizione in remoto di figure professionali mancanti sul territorio ma fondamentali per lo sviluppo dell’ecosistema economico; lo schieramento di mediatori digitali con il compito di accompagnare i territori sui temi del digitale; la realizzazione di percorsi di studi universitari incentrati sui fondi europei in cui i corsisti avrebbero la possibilità d’integrare il bagaglio teorico con un percorso di apprendistato nei territori secondo i parametri del metodo (molto caro alla Commissione europea) Learning by doing.

Accanto agli strumenti, non meno importante poi da tenere in considerazione per l’abilitazione di un hub d’intelligenza collettiva è il contesto amministrativo su cui impostarlo.

È infatti del tutto evidente che mentre un simile hub si presti a essere un vestito perfetto per una città, appaia, invece, sovradimensionato per un piccolo comune.

Ed ecco allora che Next Generation Eu diventa un’opportunità straordinaria per risolvere al tempo stesso un problema (la difficoltà per i piccoli comuni di andare avanti da soli) e programmare il futuro (abilitando i territori a posizionarsi rispetto alle catene internazionali del valore).

Penso all’Unione di Comuni una modalità organizzativa istituzionale a oggi ancora poco metabolizzata dal Paese.

In tal senso, l’Unione di Comuni rappresenterebbe per lo Stato italiano un ottimo testimonial rispetto a come Recovery plan e riforme possano collegarsi in modalità virtuosa: che si tratti di razionalizzazione amministrativa; che si tratti di incentivo al consorzio in ambito di progettualità europea; che si tratti di coerenza e di specializzazione intelligente dei territori.

Adriano Olivetti tra le tante ispirazioni lasciateci in dote ci ha lasciato anche questa: «Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande». Oggi la Storia, in tal proposito, sembra darci l’opportunità di realizzarla se saremo così bravi a liberare le energie racchiuse nei territori e a convogliarle in qualcosa di utile e funzionale per la nostra comunità.

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