Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Partito democratico hanno aperto uno squarcio nella politica italiana. Se non altro il governatore del Lazio ha mosso le acque nel mondo dem, che in questo momento rappresenta una parte consistente della maggioranza di governo e allo stesso tempo una delle forze meno definite e definibili del quadro politico.
Adesso, come raccontavamo anche qui a Linkiesta pochi giorni fa, il Partito democratico ha la grande opportunità di capire che cosa vuole fare da grande, «se continuare a stare nell’ombra dei Cinquestelle, oppure riprendere il filo originario del partito a vocazione maggioritaria e proporsi come federatore delle famiglie liberalsocialiste e liberaldemocratiche, anche con Renzi, Calenda, Bonino, gli ambientalisti e gli innovatori, gli elettori liberali e socialisti di Forza Italia e quelli del partito del pil e dei ceti produttivi, che sono la perfetta rappresentazione sociale e politica del governo Draghi e dei suoi ministri tecnici», scriveva il direttore Christian Rocca.
«Il Partito democratico è stato una forza attrattiva, capace di suscitare entusiasmi e favorire una modernizzazione della società italiana quando è stato un partito plurale aperto a idee diverse, ma animato da una visione comune e dai valori progressisti di libertà, uguaglianza e solidarietà», dice la deputata del Partito democratico Lia Quartapelle, capogruppo del partito nella Commissione Esteri.
Quartapelle è intervenuta durante l’incontro “La strada dei riformisti”, organizzato e sostenuto da SpazioMilano: si è parlato dello spazio e del ruolo che può ritagliarsi ora l’area riformista nel sistema politico italiano.
Un ragionamento che muove proprio dal Partito democratico, chiamato probabilmente a darsi una dimensione più riformista, indipendentemente da quel che produrrà l’Assemblea di domenica prossima. Ma, come ricorda Quartapelle, «bisogna prima capire come risolvere i problemi che ha il partito al suo interno, a livello di funzionamento prima ancora che nelle idee: se abbiamo esasperato due segretari eletti, Matteo Renzi e Nicola Zingaretti, significa che qualcosa nei meccanismi della nostra discussione interna non funziona più».
E sembra non funzionare più anche quella vocazione maggioritaria che ha guidato il partito – che è stato praticamente sempre al governo negli ultimi anni, fatta eccezione per la parentesi del primo governo di Giuseppe Conte – fin dalla sua origine al Lingotto, con Walter Veltroni. Colpa anche delle correnti che hanno inasprito il dibattito interno. Correnti che, come ha sottolineato il sindaco di Bergamo Giorgio Gori durante la videoconferenza, «inevitabilmente scompaiono quando il partito si muove a livello territoriale e nelle singole amministrazioni».
Proprio l’amministrazione di Gori a Bergamo – così come quelle di altri sindaci o governatori in tutta Italia – può essere considerata il riflesso di una politica che sa ancora produrre risultati se costretta a farsi più diretta, applicata, pragmatica.
E produce risultati anche perché, come dice lo stesso Gori, «tutti gli amministratori locali si trovano ad avvicinarsi all’area più liberaldemocratica del partito, anche quelli che poi al congresso votano per la componente di Andrea Orlando. Questo ci colloca di fatto nel riformismo: è per questo che spetta agli amministratori ricucire lo strappo interno e tradurre questo riformismo anche nella politica nazionale, per riposizionare il Partito democratico rispetto al governo».
Sul tema è intervenuto anche il deputato Luigi Marattin, presidente della Commissione Finanze, ex del Partito democratico e tra i fondatori di Italia viva. Marattin ha portato il discorso fuori dal perimetro del Partito democratico, parlando della necessità di rinnovare l’offerta politica riformista in Italia.
L’equazione è piuttosto semplice, dice: «In Italia c’è sicuramente una domanda populista e sovranista, quella parte di elettorato che vede la globalizzazione come una fregatura, e l’offerta per loro è quella di Fratelli d’Italia e della Lega quando smetterà di fingere».
Poi c’è la domanda di chi chiede protezione delle proprie istanze, come i socialdemocratici, gli ambientalisti e altre componenti dell’elettorato: «Loro – spiega il deputato di Italia viva – trovano la loro offerta politica in LeU, in una parte del Movimento cinque stelle, ma anche in un segmento del Partito democratico stesso».
A mancare semmai è l’offerta per quella domanda liberaldemocratica, riformista, «quella che avrebbe dovuto rappresentare il Partito democratico. Ma se la comunità politica del Partito democratico riesce a far vincere la componente liberale e a farle governare il partito, allora cambierebbe la politica italiana: perché al momento le due linee del partito sono divise su temi di grande attualità come Alitalia, il sistema fiscale, la scuola e molto altro».
Solo che quell’area liberaldemocratica in questo momento sembra ancora piuttosto lontana da qualunque versione del Partito democratico. Ed è probabile che nei prossimi mesi cerchi chi possa rappresentarla in altri volti, in altri simboli, in un’altra politica.