La Silicon Valley esiste come un “non luogo”. Non ci sono segnali stradali, né linee di confine che la delimitano, il che significa che, da una prospettiva puramente geografica, la Silicon Valley non esiste.
L’espressione “Silicon Valley” fu usata per la prima volta dal giornalista Don Hoefler in un articolo del 1971 scritto per il settimanale Electronic News. Hoefler stava descrivendo un fenomeno nascente, l’impresa di un piccolo gruppo di avventurosi californiani che tentavano di alleggerire il peso che le società con sede in Texas avevano sull’industria dei semiconduttori.
In tal modo, hanno sviluppato e promosso un’idea rivoluzionaria: un potente computer destinato all’uso personale. La Silicon Valley non è come potresti immaginare. La sua illusione come realtà altamente tecnologica persiste grazie, in parte, a narrazioni distorte che hanno fuso “alta tecnologia” con illusioni futuristiche.
Potremmo pensare alla Silicon Valley come a un luogo in cui tutto è meccanizzato e dove i colori del sole brillano sulle superfici di alluminio. Un luogo pieno di auto autonome e con una linea dell’orizzonte dominata da laboratori ispirati alla fantascienza. La realtà è completamente diversa.
Lo scopo di questo libro è di esaminare la vita quotidiana nella Valley attraverso una serie di immagini fotografiche e di offrire uno strumento che possa essere utilizzato per riconsiderare la collisione tra la controcultura californiana degli Anni Sessanta e Settanta e l’atomizzazione digitale che ne è seguita.
Un’altra menzione memorabile della Silicon Valley si trova nel film di James Bond, “A View to a Kill”. Nel film del 1985, il cattivo Max Zorin, interpretato da Christopher Walken – capelli biondo platino e un vestito che prefigura le linee eleganti del millennio successivo – proclama: «Ora siamo nella posizione unica di formare un cartello internazionale per controllare non solo la produzione ma anche la distribuzione di questi microchip … Propongo di porre fine al dominio della Silicon Valley».
Evidentemente, nel 1985 (anche se le attività di Max Zorin erano decisamente criminali) il tema del dominio della Valley stava cominciando a emergere nella cultura popolare.
Una sera del 2016, sulla terrazza esterna in stile déco di un ristorante affacciato su Piazza Duomo a Milano, un gruppo di giornalisti internazionali e Diego Della Valle erano impegnati in una conversazione post cena. Il discorso si è indirizzato alla Silicon Valley: «Sanno tutto di noi. Ma cosa sappiamo noi della vita nella Silicon Valley?»
«Il tessuto della loro vita quotidiana e la loro vera realtà», ha osservato Della Valle, «continua a sfuggirci». Come sono le loro case? Quali ristoranti frequentano? Come trascorrono il tempo libero e dove vanno dopo il lavoro per rilassarsi? La sfida di indagare la Silicon Valley, sganciata dai suoi prodotti e servizi, è stato il tema che ha animato la serata.
Due anni dopo, a novembre 2018, abbiamo inaugurato il progetto No_Code. Quei primi incontri informali hanno contribuito a stabilire i nostri obiettivi. Ci siamo concentrati sulla creazione di uno spazio di ricerca e sperimentazione all’interno del Gruppo Tod’s che fornisse a visionari, designer e osservatori del sociale la possibilità di far avanzare un dialogo finalizzato ad analizzare i cambiamenti nella società e, allo stesso tempo, come rimodulare i modelli di produzione.
Da questo laboratorio emergono oggetti dall’anima decisamente contemporanea, prodotti consapevoli di due elementi critici: il saper fare artigianale italiano e il suo impegno nella ricerca di tecnologie di produzione avanzate.
La natura ibrida di Tod’s No_Code, la dualità tra l’artigianale e il tecnologico, è evidente anche nel DNA della Silicon Valley. Combinando uno spirito contro culturale con la tecnologia digitale, la Silicon Valley afferma la sua anima ibrida. Questo è il motivo per cui No_Code ha scelto di indagare sulla natura più dettagliata della vita dentro e intorno al complesso della Silicon Valley.
Alla fine del 2019 siamo partiti da Milano per San Francisco sperando di ottenere una migliore comprensione di un territorio specifico, cercando un equilibrio tra diversi ambienti. Alla vigilia della nostra partenza, poco potevamo sapere dei cambiamenti imminenti che la pandemia avrebbe introdotto.
Questo è il nostro ritratto della Valley sull’orlo di un cambiamento epocale nelle nostre abitudini collettive. Silicon Valley inquadrata dall’obiettivo di una fotocamera analogica Rolleiflex. Un saggio visivo radicato nella tradizione della fotografia osservativa.
In compagnia del fotografo iraniano Ramak Fazel, per un periodo di sei settimane, il nostro gruppo comprendeva Matteo Procaccioli Della Valle, Yong Bae Seok, Mattia Benetti, James Jolicoeur e Francesca Bianca Bonfanti.
Siamo arrivati nella Silicon Valley in una notte piovosa atipica, con le gocce di pioggia che crescevano sul nostro parabrezza come macchie d’inchiostro, rifrangendo i colori dei lampioni al tramonto.
Il percorso si è svolto in ordine cronologico come segue: Palo Alto, Menlo Park, Stanford University, Woodside, SLAC Acelerator, NASA Research Center, Google, Mountain View, Cupertino, Apple, Orinda, Hacker Dojo, Creekside, San Jose, Half Moon Bay, Mavericks e San Francisco. Una cronologia lineare sovrapposta a un itinerario rizomatico. Tutto il resto è inscritto nelle fotografie di Ramak Fazel.
prefazione a “Silicon Valley. No_Code Life. Visual Essay by Ramak Fazel”, di Ramak Fazel, Rizzoli, 2021, pagine 192, euro 49