L’Italia, che pur ha scalato alcune posizioni nella classifica generale piazzandosi al venticinquesimo posto rispetto all’edizione precedente, resta fuori dalla top venti del World Happiness Report 2021 perché, in estrema sintesi, ha risposto al virus in modo insoddisfacente a causa della scarsa adesione della popolazione alle misure di protezione richieste e alla scarsa coesione sociale. Al contrario, le società con maggiore fiducia nelle istituzioni pubbliche e minore disparità di reddito hanno avuto più successo nella lotta al virus.
Nessuna sorpresa, dunque, nel vedere la Finlandia occupare ancora una volta il primo posto della classifica dei Paesi più felici del mondo, poiché si è sempre classificata molto in alto grazie all’elevato livello di fiducia della popolazione nei confronti della propria comunità. Fattore che nell’anno della pandemia ha supportato pienamente l’urgenza di proteggere vite e mezzi di sussistenza.
Sorprende invece constatare come mediamente non ci sia stata una diminuzione della percezione di benessere nella valutazione che le persone hanno dato della propria vita. Una spiegazione – suggerisce il rapporto – potrebbe dipendere dal fatto che le persone interpretano il Covid-19 come una minaccia esterna comune a tutti e che questo percepito abbia generato un maggiore senso di solidarietà e amicizia.
Fiducia e capacità di contare sugli altri sono dunque i due fattori che hanno consegnato alla Finlandia la prima posizione e che, più in generale, si confermano come importanti elementi per la valutazione del benessere nella propria vita più di quanto non lo siano il reddito, l’occupazione e i rischi per la salute.
Dal canto suo il World Happiness Report 2021 sembra proprio volerci certificare che dobbiamo puntare al benessere invece che alla semplice ricchezza poiché questa sarà davvero fatua se non iniziamo ad affrontare con maggiore criterio e determinazione le sfide che ci attendono nell’adozione di modelli di sviluppo sostenibile, ma anche che la pandemia non ha cancellato le minacce ambientali globali che non solo non sono scomparse ma anzi si sono aggravate.
Prendiamo ad esempio il problema dello spreco del cibo, ebbene secondo una stima contenuta nel Food waste index report 2021, uno dei report del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), nel 2019 sono andati perduti più di 930 milioni di tonnellate di generi alimentari pronti per essere consumati. Un fenomeno, questo, che risulta essere diffuso in tutti i Paesi anche se in quelli a basso reddito è più difficile certificare le stime dei volumi.
Di questi 930 milioni di tonnellate di cibo sprecato, il 61% si perde nelle famiglie, il 26% nei servizi di ristorazione e il 13% nella distribuzione al dettaglio. Certo, sono numeri impressionanti ma che restano comunque numeri globali e per questo distanti e forse anche freddi. Ma se dalla dimensione generale saltiamo in quella individuale, ecco che scopriamo di essere direttamente responsabili dello spreco di circa 79 chili di cibo all’anno a testa. Infatti, lo spreco pro capite si attesta tra i 79 chili annui nei paesi a reddito medio-alto e i 91 chili nei Paesi a reddito medio-basso.
Al di là delle eventuali e del tutto lecite riflessioni etiche sul concetto di spreco che risulta deprecabile già in senso generale per arrivare a divenire addirittura odioso nel caso specifico, quello alimentare oltretutto è un problema complesso poiché per produrre il cibo si consumano risorse naturali e si emettono enormi quantità di gas a effetto serra. Stando ai dati dell’Unep, se la quantità di cibo sprecata fosse un paese, occuperebbe la terza posizione tra quelli che producono la maggior quantità di emissioni di gas serra.
Riducendo gli sprechi alimentari dunque avremmo molteplici e significativi vantaggi in quanto in primo luogo limiteremmo le emissioni di gas serra e di conseguenza l’inquinamento, rallenteremmo il processo di distruzione della natura che avviene anche a causa della conversione dei terreni, e aumenteremmo la disponibilità di cibo utile per ridurre la fame e per risparmiare denaro in un periodo storico di recessione globale.
Ma come fare? Il percorso è molto ben tracciato anche nel World Happiness Report: puntare al benessere attraverso un approccio collaborativo condiviso. Il fatto che lo spreco di cibo sia un fenomeno così diffuso ci dimostra che per risolverlo serve un approccio globale. Per questa ragione e non solo per questa, è sempre più urgente ottenere la collaborazione di ogni singolo Paese puntando a una rivoluzione culturale che veda nella cooperazione l’evoluzione in chiave responsabile e consapevole della vecchia e totalmente inadeguata competizione.