Esiste ormai da tempo un dibattito abbastanza diffuso su quello che succederà dopo la pandemia, e in particolare se e quanto le nostre abitudini al consumo riprenderanno come le avevamo lasciate. Nessuno conosce la risposta, ovviamente, anche se per fare il primo degli esempi possibili è difficile pensare che la grande accelerazione dell’e-commerce sia destinata ad arretrare e a tornare a livelli pre Covid-19. La domanda che mi pongo è se questo sia un ragionamento che è possibile applicare anche al mondo della ristorazione. Ci sono da fare molti distinguo, è sicuro: alimentazione è anche sinonimo di socialità e come scriveva bene Gabriele Rosso proprio su Gastronomika «l’animale umano non è un soggetto incline a modificare radicalmente i propri istinti e le proprie abitudini nel giro di un calendario», difficile insomma farci cambiare radicalmente abitudini così consolidate come quella di frequentare con assiduità bar e ristoranti. Al tempo stesso è possibile immaginare che le tante restrizioni di questo ultimo anno abbiano lasciato e lasceranno segni più o meno significativi, e che sia plausibile pensare a un futuro fatto un po’ meno di grandi tavolate e un po’ più di cucina casalinga. Vedremo.
C’è poi un tema legato alla scelta dei ristoranti che torneremo ad affollare: siamo sicuri che basterà tirare su una serranda per rivedere gli stessi clienti della scorsa estate o, ancora prima, dello scorso febbraio? Che premere un interruttore sia sufficiente per tornare indietro nel tempo? Me lo chiedo con la consapevolezza che questi sono stati mesi difficilissimi per tutti, sia per chi ha deciso di rimanere chiuso che per chi tra mille difficoltà, ha provato a reinventarsi con soluzioni quali asporto e delivery, modalità di consumo che sono prepotentemente entrante nella nostra nuova quotidianità. Certo la sensazione è che soprattutto per i secondi, questi mesi siano stati non solo una sfida ma forse anche un investimento nel futuro.
Ma parliamo di vino. Dell’annullamento anche di Vinitaly 2021 si è detto. Ovvio che si tratta di una testimonianza di un piccolo produttore, e che è sicuramente difficile generalizzare, ma Paolo Cianferoni di Caparsa si chiede sul suo blog se la pandemia abbia cambiato la promozione del vino per sempre:
«Il metodo di promozione legato agli eventi e alle fiere che abbiamo vissuto negli ultimi 25 anni ha delle contraddizioni importanti, soprattutto ambientali e economici per i produttori. Viaggi, pernottamenti, quote di adesione, moltissime bottiglie di vino sparse qua e là (la maggior parte come se fossero state buttate via), stress da prenotazioni, da logistica, biglietti aerei, burocrazia contributiva, servizi di ogni genere, inquinamento, montagne di spazzatura, ecc. tutto questo si è fermato. Paradossalmente guadagno più ora che ho meno spese, che quando partecipavo (raramente in verità) agli eventi. E il mercato non è diminuito, anzi. Inoltre le esportazioni tirano molto bene, senza finalmente dover continuamente cercare l’evento di vino dove aver chance di vendita: i consumatori non hanno smesso di bere e comprano il vino per molti canali, che prontamente i più svegli e attivi hanno attivato, soprattutto all’estero. Dunque, si risparmia e si vende lo stesso».
Negli ultimi anni il racconto del vino italiano all’estero è cambiato moltissimo: si sono aggiunte voci, è cresciuta l’attenzione nei confronti di zone meno centrali come di vitigni meno conosciuti. In generale è possibile dire che il mondo del vino si è un po’ “italianizzato”, uscendo così da un tracciato che per qualche decennio aveva visto la Francia dettarne le regole grammaticali. È un processo ancora in corso, molto lungo, molto lento, non sempre così visibile, ma che a volte emerge con una chiarezza disarmante. Ci ho pensato leggendo Sarah Heller su Club Oenologique e il suo pezzo intitolato “It’s time we judged Italian wine on its own terms”.
Quanti passaggi interessanti: «The challenge remains that most wine lovers come to Italian wine relatively late. Some become veritable believers (no zealot like a convert, and so on), but many continue to judge even the greatest Italian wines not on their own terms but using values imported from France or perhaps California». E ancora: «As long as Barolo or Etna remain ‘the Burgundy of Italy’, they will never be the pinnacle of anywhere». Oppure, gran finale: «As somebody who started her wine adventure with Italian offerings, it actually took me some time to adjust my palate to international wines, in which I found the ‘butter popcorn’ of oak sickeningly ubiquitous and the obsession with fruit deleterious. Thus, I can empathise with those who simply feel out of sync with the raspy, cerebral acquired taste that Italian wine can present. But I promise that if you can make it to the other side with your taste buds intact, you will never feel the need to leave».
Per dire, 20 anni fa sarebbe stato possibile immaginare un ladro di bottiglie fissato con le grandi etichette italiane? Sul San Francisco Chronicle: San Francisco may have a wine thief, and it looks like they’re into fancy Italian bottles.
Rimaniamo più o meno in tema: Has Chianti Classico finally outgrown Cabernet and company? Per dire: «Why, then, do we need Chianti Classicos with dollops of Merlot and Cabernet? Are they inherently better wines? Do they truly enhance the final product? I’d argue not: I’ve never tasted a blended style that was superior to a 100 percent Sangiovese hallmark».
Sono sempre colpito quando leggo un articolo in cui si sostiene che un consumo moderato di vino può fare bene alla salute, o proteggere contro un qualche tipo di malanno. Eddai: il vino contiene parecchio alcol, sostanza sempre e comunque straordinariamente nociva. Meglio magari dire che un paio di bicchieri al giorno non fanno male, magari. Noi beviamo vino perché ci piace, perché senza abusarne è parte della nostra cultura e del nostro quotidiano. Per fortuna negli ultimi anni associare salute e vino è tendenza che si è decisamente ridimensionata, non mancano periodicamente però delle eccellenti eccezioni. È capitato un paio di settimane fa dopo che è uscito uno studio rilanciato dall’Accademia Americana di Oftalmologia – Drinking Wine May Help Protect Against Cataracts – subito ripreso dal Messaggero, ovviamente nella sua sezione “Salute”.
Austria ‘one of the most exciting countries in Europe’ for orange wines.
L’ultima settimana è stata caratterizzata da una diffusa ondata di freddo che ha colpito mezza Europa, con effetti molto gravi per quelle coltivazioni che avevano goduto dei caldi di marzo e di quella che in tanti avevano definito come una primavera anticipata. Le famose gelate notturne letteralmente “bruciano” le gemme e quindi precludono parte del ciclo vegetativo della vite. Non è facile quantificare il danno con precisione, in Francia tuttavia si parla già della peggior gelata da decenni a questa parte, con perdite che in alcune zone superano il 70% della produzione. In rete si trova moltissimo materiale, e magari anche voi avete visto quelle belle, scenografiche, drammatiche immagini raffiguranti i tanti fuochi che per combattere il freddo vengono accesi tra i filari, soprattutto nelle aree vitate più importanti come per esempio la Borgogna. Il Guardian ha fatto un bel riassunto qui, articolo in parte ripreso dal Post, in italiano. Ne ha scritto anche il New York Times. E qui da noi? Sembra sia una problematica a macchia di leopardo, solo per alcune varietà e solo per alcune zone. Valter Speller ha provato a tirare le fila.
Le pillole video di Porthos a cura di Mauro Fermariello dedicate ogni volta a parole chiave differenti. L’ultima quella sulla mineralità, ma anche sul prezzo del vino e le prime 2: il vino buono vs. il vino cattivo.
Bonus: il canale YouTube di Roscioli.
Quelli di Slow Wine stanno scrivendo il vocabolario del vino, sono partiti dalla lettera A, come autoclave.
Un’interessante intervista a Giancarlo Gariglio, curatore insieme a Fabio Giavedoni proprio di Slow Wine.
There is an implied level of trust in the review system that sits at odds with society’s current cynicism. You will buy the shoes I recommend but you won’t listen to a scientist telling you to get a vaccine? Siamo incastrati in un mondo di recensioni e di recensori, dice Tim Atkin.
The Many Faces of Kalterersee. Su Trink si parla dei vini del Lago di Caldaro, in Alto Adige.
Paolo Casalis è architetto, autore, documentarista e scrittore. Su Intravino ha scritto che “Non sta andando tutto benissimo, nelle Langhe – Di cemento, diserbo e altre storie”.
Ohhhh, finalmente! It’s Time to Forget the Old Rules of Wine Pairing, su Eater un pezzo che propone una volta per tutte di dimenticare parte delle insopportabili regole sugli abbinamenti cibo/vino imparate durante quelle noiosissime lezioni del corso da sommelier e aprirsi a un mondo nuovo. Provare cioè a seguire regole diverse, per esempio provare ad abbinare un vino all’atmosfera e non al piatto. Per dire: stai cenando fuori con un amico? Vuoi intrattenere il tuo capo? Stai ospitando i tuoi genitori o la tua famiglia? Ognuno di questi scenari darà un’energia diversa al tuo pasto e, in ultima analisi, influenzerà il modo in cui vivrai il vino.
Dallo Jura agli USA: Is Trousseau’s Future in American Vineyards?
I vini fermi della Champagne sono una di quelle cose un po’ indie e un po’ snob: costano spesso moltissimo, sono pressoché introvabili, la leggenda li vuole sempre molto eccezionali. Ha fatto quindi notizia, questa settimana, la presentazione da parte di una delle più importanti maison della regione, Louis Roederer, di 2 nuove etichette, una a base di chardonnay e l’altra di pinot nero. Non tanto per il prezzo che sfiora i 200 euro, o per la tiratura, in Italia ne arriveranno solamente 300 bottiglie, quanto per una viticoltura a nord che guarda sempre più a sud. Voglia di allargare una gamma o ennesimo sintomo del cambiamento climatico applicato alla viticoltura? Club Oenologique, sempre più testata di riferimento, ha chiesto a una Master of Wine esperta di Borgogna di recensirle. Spoiler: vini buoni, non eccezionali.
Tipicamente, il blog di Antonio Boco e di Paolo De Cristofaro, si è rifatto il trucco.
Sono sempre molto colpito dalle reazioni che la parola “influencer” suscita in chi scrive di vino, giornalisti e blogger che guardano al termine e a tutti i valori che questo porta con sé come a un qualcosa di raccapricciante. Tutte persone che non hanno mai capito quanto il loro lavoro di divulgazione, quasi sempre non abbia niente a che vedere con chi si fa pagare per promuovere questo vino o quel territorio. Di più: l’influencer marketing è strumento che se usato correttamente può essere straordinariamente efficace sia per una cantina che per un consorzio. Ci ho pensato quando ho letto di quello del Chianti e delle attività che ha in programma di fare in Russia. Notizia che mi ha fatto subito venire in mente un articolo molto ottimista sul fenomeno uscito qualche giorno prima su Wine Enthusiast.
Ci sono come sempre delle eccezioni ma scoprire il dato è stato piuttosto sorprendente: a guardare nei consigli di amministrazione dei consorzi di tutela, la presenza femminile non arriva al 10 per cento. Esiste un tema di rappresentanza di genere nel vino italiano. Ne ho scritto su Intravino.
Volete iscrivervi alla newsletter? Si fa da qui!