Una svolta che si aspettava da tempo: ieri sette ex terroristi italiani rifugiati in Francia sono stati arrestati a Parigi su richiesta di Roma, mentre altri tre sono in fuga e sono ricercati. I dieci sono accusati di atti di terrorismo risalenti agli anni Settanta e Ottanta. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha gestito quest’ultima fase, oggi rilascia due interviste, a Repubblica e al Corriere, ribadendo che ha vinto la ricerca della verità e la giustizia riparativa, non la sete di vendetta. Ma per l’estradizione «non dobbiamo aspettarci un rientro a breve», precisa.
«Questa vicenda si protrae da oltre quattro decenni. Dietro questa svolta c’è un lavoro che ha coinvolto negli anni vari soggetti a più livelli. Sin dal mio primo colloquio col ministro della Giustizia francese ho percepito una chiara sensibilità alla portata storica e politica del problema, un’umana partecipazione al dolore delle vittime e una netta determinazione a impegnarsi per porvi rimedio», racconta la ministra al Corriere. «Non so se le origini italiane del ministro Dupond-Moretti, di cui va molto fiero, possano aver giocato un ruolo. Decisivo è stato anche il fatto che, mai come ora, tutte le nostre istituzioni si sono mosse in modo compatto e tempestivo. Una modalità d’azione, a cui ispirarsi sempre».
Nel colloquio con Dupond-Moretti, continua Cartabia, «ho ribadito con fermezza l’importanza del fattore tempo, avendo ben presente il calendario delle imminenti prescrizioni. La prossima sarebbe stata il 10 maggio. E ho voluto anche fare chiarezza una volta per tutte sul duplice equivoco, che per anni ha ostacolato la concessione delle estradizioni: anzitutto stiamo parlando di persone condannate in via definitiva per reati di sangue e non processate per le loro idee politiche; in secondo luogo le condanne sono state pronunciate all’esito di processi celebrati nel pieno rispetto delle garanzie difensive del nostro ordinamento. Come in questi anni più volte è stato ricordato, con le parole di Sandro Pertini, “l’Italia ha sconfitto gli anni di piombo nelle aule di giustizia e non negli stadi”».
La ministra parla di una telefonata tra Draghi e Macron «decisiva». Ma sulla effettiva estradizione in Italia è «difficile fare previsioni precise, anche perché si tratta di fascicoli complessi. Di certo, io direi non dobbiamo aspettarci un rientro a breve, nei prossimi giorni. Gli arresti di ieri servivano a scongiurare il pericolo di fuga. Ora i giudici valuteranno se convalidarli e se applicare misure cautelari. Poi inizieranno i procedimenti, per valutare caso per caso la sussistenza dei presupposti per la concessione dell’estradizione. E poi ancora, come sempre avviene in queste procedure, l’ultima parola è dell’autorità politica».
Ma anche a distanza di 40 anni anni, dice la ministra, «nessun ordinamento giuridico può permettersi che una pagina così lacerante della storia nazionale resti nell’ambiguità, e resti irrisolta. La storia offre numerosi esempi di giudizi celebrati e di vicende giudiziarie portati a compimento a molti anni di distanza. La nostra volontà di riproporre la richiesta delle estradizioni non risponde nel modo più assoluto ad una sete di vendetta, che mi è estranea, ma a un imperioso bisogno di chiarezza, fondamento di ogni reale possibilità di rieducazione, riconciliazione e riparazione, fini ultimi e imprescindibili della pena».
Ma, continua ancora, «qualunque processo di rieducazione e anche di riconciliazione personale e sociale, specie dopo ferite particolarmente profonde, non può non partire dal riconoscimento di ciò che è accaduto e da un’assunzione chiara di responsabilità. Non a caso, in Sud Africa, dopo l’Apartheid, è stata costituita una commissione denominata “verità e riconciliazione”. Questo è forse il primo rilevante esempio di giustizia riparativa, che tra l’altro ha ispirato un analogo percorso qui in Italia tra protagonisti della lotta armata e i familiari delle vittime».
Su Repubblica Cartabia cita “Il libro dell’incontro” e dice: «Questo cammino ha preso avvio dal desiderio di tutti i soggetti coinvolti di non permettere che le loro vite “cadessero per sempre nella rimozione, nella negazione o nel rancore, ma si aprissero a una presa di coscienza, a una ricerca della verità e di responsabilità costruttivamente intese, per uscire dalle memorie congelate e fissate sul dolore inferto e subito”». Il libro, spiega, «raccoglie le testimonianze di un percorso di giustizia riparativa, che considero la forma più alta di giustizia, a cui può tendere un ordinamento».