Nel 79 d.C. un fornaio di Ercolano mise una pagnotta nel forno, come qualsiasi altro giorno. Quasi 2000 anni dopo possiamo osservare quella forma di pane, carbonizzata dalla lava del Vesuvio ma ancora perfettamente integra: una pagnotta di circa 25 centimetri di diametro suddivisa in otto spicchi per facilitare il taglio (per chi volesse cimentarsi con il pane di Giulio Cesare qui c’è la ricetta che lo chef Giorgio Locatelli ha ricreato per il British museum nel 2013).
Per migliaia di anni gli uomini hanno cotto il pane da soli e l’hanno consumato tagliandolo a mano, una fetta alla volta. Operazione che si compie di norma appoggiando la pagnotta di piatto sul tagliere e affettandola con un coltello (qui una serie di strumenti che facilitano il lavoro). Se vi sembra elementare, sappiate però che non è l’unico modo. In un articolo pubblicato sul Daily Mail, Sarah Jumpel suggerisce un metodo migliore: «Al ristorante dove lavoro un paio di giorni alla settimana, affetto pagnotte di pane senza glutine lunghe due piedi in fette spesse mezzo pollice. Il modo migliore per ottenere fette consistenti e preservare la forma della pagnotta è girarla su un lato». Il trucco funziona soprattutto con il pane croccante che normalmente richiede molta pressione perché affrontandolo di taglio e non di piatto si riduce la quantità di crosta che impatta sul coltello.
Pani duru e cuteddu ca nun tagghia (pane raffermo e coltello che non taglia) recita un proverbio siciliano per indicare la difficoltà nello svolgere un’attività soprattutto se c’è una certa dose di indolenza. Il primo passo è capire chi abbiamo davanti. Se si tratta di pane raffermo meglio affrontarlo dolcemente, passandolo brevemente sotto l’acqua o nella vaporiera prima di affrontarlo con una lama.
Esistono poi pani che non si tagliano, i cosiddetti pani da viaggio come la frisella pugliese (non classificabile come pane perché cotta in forno due volte) che un tempo veniva bagnata nell’acqua di mare prima di essere condita o lo Schuttelbrot, il pane di segale tipico della Valle Isarco, da spezzare con le mani.
Per tutti gli altri serve lo strumento giusto: scartati quelli a lama liscia – che ci costringono a fare più pressione e alla fine schiacciano il pane – meglio orientarsi su un modello con lama seghettata i cui denti affondano meglio nella crosta mentre la lama scorre avanti e indietro. La forma delle dentellature varia da marchio a marchio; più i denti sono uncinati meno fatica faremo, più sono smussati più il taglio è preciso e non produce briciole.
Tra le invenzioni del Novecento c’è il pane industriale a fette. L’idea si deve al genio visionario di Otto Frederick Rohwedder, nato a Davenport, Iowa, da genitori tedeschi, di professione orefice. Rohwedder costruisce la prima affettatrice nel 1912 ma poco dopo un incendio distrugge la fabbrica dov’è conservato il prototipo e tutti i disegni. L’incidente non ferma Rohwedder che investe tutte le sue finanze nel progetto e per migliorare la sua idea conduce un’indagine di mercato sottoponendo un questionario a 30 mila casalinghe. Nel 1928 la versione migliorata della sua invenzione è pronta ma i fornai restano scettici. Il macchinario di Rohwedder è piuttosto ingombrante, le fette si seccano in fretta ed è complicato tenerle unite. Dopo vari tentativi con elastici e spilli, Gustav Papendick, un fornaio di St. Louis, ha l’idea di infilarle in una scatola di cartone e avvolgerle con della carta oleata per conservarne la freschezza. Nel 1930 Wonder Bread inizia a commercializzare il pane a fette e nel giro di poco l’invenzione di Rohwedder conquista l’80 per cento del mercato.
Come scrive Aaron Bobrow-Strain in “White Bread” «i consumatori adoravano i panini quadrati di Wonder Bread», perfettamente dimensionati per toast e sandwich, senza scarto, e in breve il pane pre tagliato diventa sinonimo di convenienza. Per capire la portata di questa innovazione, gli americani sono soliti usare l’espressione “la miglior invenzione dopo quella del pane a fette” per lodare qualcosa.
Ma c’è un però: le pagnotte industriali, più morbide di quelle artigianali così da sembrare appena sfornate, fanno aumentare il consumo di burro e marmellata. Nel gennaio del 1943 i funzionari statunitensi vietano il consumo di pane a fette per conservare le riserve di cibo in tempo di guerra.
Qualche giorno dopo l’ordinanza, il New York Times pubblica la lettera di protesta di una casalinga: «Vorrei farvi sapere quanto sia importante il pane a fette per il morale e la salute mentale di una famiglia. Mio marito e quattro figli vanno di fretta durante e dopo la colazione. Senza pane pronto affettato devo fare le fette per il pane tostato – due pezzi per ciascuno – e sono dieci. Per i loro pranzi devo tagliare a mano almeno venti fette, per due panini a testa. Successivamente faccio il mio pane tostato. Ventidue fette di pane da tagliare in fretta!». L’8 marzo 1943 il divieto viene revocato.
Oggi il pane a fette è diffuso in tutto il mondo ma lo spessore varia a seconda della marca e del paese. Nel Regno Unito, viene venduto in quattro varianti: sottile, medio, spesso e extra spesso. In Irlanda le varianti sono due, per panini e toast, e le forme da 800 o 400 grammi avvolte in carta oleata. In Canada e negli Stati Uniti lo apprezzano extra spesso mentre i giapponesi lo preferiscono super sottile e lo etichettano in base al numero di fette (di solito 4, 5, 6 o 7 e, occasionalmente, 8 o 10).
In Italia la moda del pane affettato come stuzzichino tra un pasto e l’altro si diffonde a partire dalla metà degli Anni Venti quando i coniugi Nebiolo, proprietari del Caffè Mulassano di Torino, tornano dagli Stati Uniti con un tostapane elettrico; qualche modello rudimentale esisteva già a fine dell’Ottocento ma nel 1926 Charles Strite realizza per la Waters-Genter Company un modello automatico dotato di timer e di una molla che solleva le fette alla fine della cottura. L’invenzione di Strite prende il volo con la diffusione del pane affettato. Oltre ai toast, al Caffè Mulassano servono anche panini freddi a base di pancarré (dal francese pain carré, pane quadrato) e sfiziose farciture. Gabriele D’Annunzio li chiamerà tramezzini, risposta italiana ai tea sandwich inglesi.
«Trattenuto il pane con la mano sinistra, la destra porta il boccone alla bocca. Il movimento contrario risulta difficile e scomodo» ammonisce Elda Lanza ne “Il tovagliolo va a sinistra”. Se ne deduce che il pane debba arrivare in tavola già porzionato. Galateo impone che sulla tavola vada a sinistra del piatto, in linea con la punta della forchetta, adagiato su un piattino o direttamente sulla tovaglia.
Spezzare il pane è gesto antico, dal significato profondamente cristiano: i discepoli di Emmaus riconoscono il Signore «nello spezzare il pane» (Lc 24,35), simbolo dell’eucarestia. Nell’ultima cena Gesù lo spezza in rappresentanza dell’umanità intera e lo fa con le mani.
Per la sua valenza simbolica, il pane è assimilabile al vino: il primo è la base essenziale del sostentamento, il secondo è il surplus che rende il quotidiano una festa. Entrambi vanno trattati con rispetto, l’uno perché è la base principale della vita, l’altro perché ne è l’esatto contrario: procura piacere, ma se ne può fare a meno ed è potenzialmente pericoloso.
Nel corso dei secoli alla consuetudine religiosa dello spezzare il pane si sommano esigenze prosaiche. Margaret Visser in “Storia delle buone maniere a tavola” spiega che è stata l’aristocrazia francese del Settecento a propendere per l’uso delle mani «nel segno di una transizione verso un’elegante semplicità di modi che sarebbe diventata il tratto distintivo del buon gusto». Ma soprattutto per sottolineare la differenza che corre tra un pranzo elegante e un pic-nic informale. Aggiunge Visser: «Il pain de campagne, la pagnotta rustica francese, grande, rotonda e spessa, si taglia a pezzi: un contadino avrebbe tirato fuori il suo coltellino da tasca e l’avrebbe tagliata tenendola sotto il braccio. Le baguette viennesi, invece, sono un pane bianco e morbido, servito in cestini già affettato. Il rifiuto di tagliarlo a tavola è un modo per specificare di quale tipo di pane si tratti, sottolineandone la differenza rispetto al pain de campagne».
Nel corso del Novecento, il pane da fonte principale di calorie diventa marginale, un semplice complemento al pasto eppure nonostante sia «di produzione industriale, sbiancato, molliccio, già porzionato (alla faccia dello “spezzare il pane”), avvolto nella plastica o nel cellophane, nell’immaginario comune resta una sorta di sostituto del seno materno – conclude Visser. Ci aspettiamo ancora di avere il pane a disposizione a ogni pasto, come sfondo, completamento o ricompensa per la tensione o il disappunto che il resto del pasto potrebbe procurarci».
Sprecarlo è considerato un peccato, condividerlo con gli amici è segno di amicizia e fiducia. Nel latino medievale la parola companio, compagno, significa letteralmente “la persona con cui si condivide il pane”, cosicché ogni “compagnia”, dai gruppi teatrali alle multinazionali dell’acciaio, è accomunata dal significato evocato nello spezzare il pane insieme.