De gustibusSe scappi ti sposo, ovvero il cervello sa più cose della lingua

La nostra esperienza cosciente del cibo è solo la punta dell’iceberg del modo in cui percepiamo i sapori. Studiando le sensazioni consce e inconsce, in futuro potremo preparare cibi migliori e più sani dice la neuroscienziata Camilla Arndal Andersen

In una scena del film “Se scappi ti sposo” Richard Gere, un giornalista un po’ cinico, accusa la svaporata trentenne Giulia Roberts, perennemente in fuga davanti all’altare, di non avere le idee chiare in fatto di uomini. Lei non sa cosa vuole davvero, perché a seconda del partner del momento cambia idea sulle uova. Al culmine di un litigio, Gere sbotta: «Sei così confusa che non sai neanche come ti piacciono le uova! Col prete le volevi strapazzate, col chitarrista pazzo erano fritte, con l’altro tipo quello degli insetti erano in camicia e ora… ora, solo le chiare».

Appiattimento amoroso o mancanza di coerenza? La scienza direbbe che Giulia Roberts è vittima come tutti noi del pregiudizio della cortesia, quel meccanismo secondo cui le nostre risposte tendono a essere viziate dall’interlocutore che abbiamo davanti.

Howard Moskowitz, consulente prima per Pepsi e poi per Campbell Soup, già negli anni Ottanta era arrivato alla conclusione che il mercato non sappia quello che vuole. Ribaltando il presupposto delle ricerche di marketing dell’epoca, Moskowitz aveva smesso di chiedere alla gente cosa gli piacesse o cosa la rendesse felice arrivando alla conclusione che le persone non sanno cosa vogliono fino al giorno in cui non lo provano. Il suo mantra? La mente non sa cosa vuole la lingua.

Moskowitz ha cambiato il modo in cui l’industria alimentare cerca di farci felici, spiega Malcolm Gladwell. Per diversi anni, Ragu e Prego, due marche di sughi pronti, cercarono di capire attraverso focus group cosa gli americani cercassero nella salsa per gli spaghetti. Tutti rispondevano «sottile e frullata» perché è così che pensavano fosse fatta in Italia. Quando divenne consulente per Prego, Moskowitz creò quarantacinque varietà di salsa nel tentativo di trovare la combinazione perfetta: piccante, dolce, aspra, salata, più o meno spessa, aromatizzata… Le persone però dopo l’assaggio tendevano a sceglierne sempre tre: semplice, piccante e con i pezzettoni, e di queste tre quella con i pezzettoni era di gran lunga la preferita.

A dispetto di tutte le indagini di mercato, le persone amavano la salsa più grezza, semplicemente non l’avevano mai assaggiata prima di allora. Negli anni Novanta il sugo a pezzettoni fece guadagnare a Prego centinaia di milioni di dollari.

Dell’eterno dissidio tra quello che pensiamo ci piaccia e quello che ci piace davvero, tra quello che pensiamo di dover essere e quello che, biologicamente parlando, in fin dei conti siamo si occupa anche la neuroscienziata Camilla Arndal Andersen. Come spiega in questo intervento tracciare il confine tra le due sfere non è affatto facile. «Quando la gente dice che apprezza il mio milkshake con poco zucchero, è vero? O dicono così perché sanno che sto ascoltando e mi vogliono far piacere? O magari vogliono sembrare sani e in forma alle mie orecchie. Non saprei. Ma peggio, non lo sanno nemmeno loro».

Persino gli assaggiatori professionisti, cui è stato insegnato a scindere l’olfatto dal gusto, rischiano di giudicare più dolci i prodotti che contengono vaniglia. Non perché sia più dolce, piuttosto «perché anche questi professionisti sono esseri umani, e come noi, associano il dolce alla vaniglia».

Arndal Andersen è convinta che la nostra esperienza cosciente del cibo sia solo la punta dell’iceberg del modo in cui percepiamo i sapori. Il cervello impiega 100 millisecondi per capire cosa stiamo per mangiare, mezzo secondo prima che intervenga la nostra mente cosciente a dirci se quello che stiamo assaggiando ci piace oppure no. Studiando il complesso di queste sensazioni, sia consce che inconsce, in futuro secondo Arndal Andersen sarà possibile produrre cibi migliori e più sani.

Dal punto di vista biologico, identifichiamo i sapori tramite dei recettori in grado di attivare una risposta neuronale. I recettori presenti nella bocca li categorizzano secondo uno dei cinque gusti di base – salato, acido, amaro, dolce e piccante – quelli del naso li trasformano in odori. E altrettanto avviene per tatto, calore, suoni, ecc.. Il complesso di queste informazioni è rilevato dai recettori del cervello e convertito in segnali elettrici. Le informazioni poi si intrecciano e si integrano tra loro, cosicché alla fine possiamo riconoscere quel che è appena successo: ho mangiato qualcosa e mi è piaciuto.

È a questo punto che cadiamo in errore. A volte l’esperienza non riflette per niente la realtà: «Alcuni stimoli fisici possono essere tanto deboli da non riuscire a raggiungere la mente cosciente, mentre le informazioni che ci riescono possono essere alterate da pregiudizi inconsci. E la gente ha un sacco di pregiudizi, anche se non sa di averli».

Immaginiamo di acquistare una miscela di caffè costosa, bendiamo la nostra cavia e facciamogli assaggiare due tazzine, una riempita con la qualità che usiamo abitualmente, l’altra con quella premium. Molto probabilmente quella costosa piacerà più dell’altra anche se, in realtà, nelle due tazzine avremo servito lo stesso identico caffè.

La sfida più grande per gli scienziati come Arndal Andersen è tracciare il confine tra la realtà oggettiva e le valutazioni soggettive. Per farlo la strada è arrivare direttamente al cervello senza la mediazione della mente cosciente. Arndal Andersen utilizza una tecnica di scansione cerebrale chiamata elettroencefalografia (Eeg) che misura attraverso una serie di elettrodi l’attività cerebrale del cervello con una precisione al millisecondo. Eliminare la barriera della mente cosciente per vedere oltre i pregiudizi. «Siamo riusciti a misurare la prima risposta al gusto, prima ancora che le persone ne abbiano coscienza, e prima che inizino a pensare se gli è piaciuto o meno. Possiamo misurare le loro espressioni facciali, vedere dove stanno guardando, calcolare la sudorazione e la risposta del cervello».

Potendo misurare la risposta ai diversi dolcificanti in futuro sarà possibile trovare quello col sapore più simile allo zucchero e soddisfare il gusto. L’Eeg ha già dimostrato che il grasso, oltre a essere percepito per la consistenza e l’odore, viene rilevato anche dalle papille gustative. Potrebbe essere il sesto gusto fondamentale. «Se riusciamo a capire come il cervello riconosce grassi e zuccheri, e qui sto sognando per ora, potremmo creare un milkshake con zero calorie identico all’originale. O magari scoprire che non è possibile, perché in modo inconscio percepiamo le calorie attraverso il tratto gastrointestinale. Ce lo dirà il futuro».

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