Tra tutte le attività industriali, l’attività estrattiva di minerali solidi da miniere e cave è quella che maggiormente può generare un rilevante impatto ambientale e sociale, ma è anche il fondamento di moltissime altre attività produttive e, di conseguenza, dello sviluppo e del benessere della popolazione. Ogni ciclo dell’evoluzione dell’uomo è strettamente connesso con la disponibilità di minerali, così come ogni rivoluzione industriale è stata permessa dall’approvvigionamento di nuove risorse.
D’altro canto l’industria mineraria prevede attività di pericolosità intrinseca, che comportano da un lato incidenti sul lavoro e malattie professionali per il personale, oltre a modifiche del paesaggio e della sua percezione visiva, con alterazioni della morfologia del territorio, che sono solo gli aspetti più evidenti e comuni.
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Un ulteriore grave pericolo è la dispersione nell’ambiente di elementi tossici, i cosiddetti metalli pesanti, un termine che comprende metalli veri e propri come rame, piombo, zinco, cadmio, mercurio e cromo ma anche non-metalli o semimetalli quali selenio, arsenico, antimonio, bismuto e altri.
È stato calcolato che l’estrazione mineraria potenzialmente influisce su 50 milioni di km2 di superficie terrestre, un’area superiore a quella dell’intero continente asiatico, in cui l’8% coincide con le aree protette, il 7% con le principali aree di biodiversità e il 16% con aree ancora incontaminate. La maggior parte delle aree minerarie considerate, l’82%, estrae metalli necessari per la produzione di tecnologie destinate alle energie rinnovabili.
Le minacce dell’attività mineraria alla biodiversità, senza una pianificazione volta a tutelarla, potrebbero dunque superare quelle evitate dalla mitigazione dei cambiamenti climatici.
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Il principale criterio per valutare la sostenibilità di un materiale è l’energia necessaria per contrastare l’entropia generata dal suo utilizzo.
Operativamente i minerali metallici vengono utilizzati restando nei livelli di entropia più bassi, ed è questo il motivo per cui di solito siamo in grado di riciclarli, mentre con minerali come il carbone l’uso stesso converte il materiale in un livello di entropia così elevato (s e un impatto ambientale ripristinabile, ad esempio utilizzando per il riciclo energia proveniente da fonti rinnovabili, l’utilizzo dei minerali può ritenersi con buona approssimazione sostenibile.
Dal punto di vista economico, il processo di estrazione di una risorsa limitata dalla crosta terrestre può condurre ancora a uno sviluppo sostenibile solo fintanto che il capitale generato viene investito nella costruzione di un’economia diversificata.
Questo aspetto, indice di una scarsa sostenibilità, si applica anche alle economie di estrazione di combustibili fossili, quando vengono ritenute non rinnovabili ma sostenibili. In effetti, alcuni paesi potrebbero utilizzare i profitti derivanti dalle attività minerarie delle proprie risorse naturali come catalizzatore per un percorso di sviluppo a più lungo termine.
Piuttosto che un rifiuto semplicistico dei minerali come non sostenibili, gli ambientalisti devono essere disposti ad affrontare le sfumature chimiche, ecologiche ed economiche dell’estrazione dei materiali.
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Nelle discussioni sul rapporto tra industrie estrattive e cambiamenti climatici si può notare da parte di chi “ha la parola” una tendenza a concentrarsi sulla combustione dei combustibili fossili: raramente l’estrazione dei metalli è presentata come una questione centrale.
Tuttavia questa attività è a oggi responsabile del 20% delle emissioni globali e, per la stessa percentuale, degli impatti sulla salute globale, quali malattie cardiovascolari e respiratorie, causati dal particolato (PM). In alcuni paesi, come il Cile, il settore minerario è poi il maggiore consumatore di elettricità.
Ebbene, la maggior parte dei programmi di politica climatica ed energetica, ovvero gli stessi propositi alla base del “Green New Deal” negli Stati Uniti, nel Regno Unito ed in Europa, e le richieste di molti movimenti e organizzazioni che si identificano nei principi di giustizia climatica, non affrontano esplicitamente l’estrazione di metalli.
Nemmeno la maggior parte degli “investitori etici”, nelle analisi di ciò che costituisce un investimento dannoso o non etico, esamina attentamente l’operato delle compagnie minerarie.
Non vogliamo qui mettere in dubbio la necessità delle tecnologie di energia rinnovabile o l’esistenza dei cambiamenti climatici: è chiaro a tutti che dobbiamo abbandonare urgentemente la dipendenza dai combustibili fossili, garantendo però nel contempo che siano soddisfatte le esigenze di accesso all’energia e la giustizia energetica e climatica.
Le preoccupazioni degli osservatori più lucidi vertono sull’ideologia della “crescita verde”, che sta guidando le visioni dominanti della transizione, così come sul modo in cui l’industria mineraria già trae e sempre più trarrà beneficio da una transizione che si presenta palesemente acritica e irrazionale, fideistica e strumentale, e pertanto priva di attenzione ai pesantissimi effetti collaterali. Se le più grandi compagnie minerarie del mondo potranno posizionarsi come partner chiave nella transizione, le comunità e il Pianeta ne subiranno le conseguenze, mentre la crisi ecologica diventerà molto più acuta, e questo possiamo prevederlo con certezza già ora.
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Il greenwashing con cui l’industria mineraria attira investimenti e giustifica nuovi progetti usando le proiezioni di domanda futura di metalli critici e inquadrandosi come attore chiave nella transizione, nasconde l’essenza stessa del motore del conflitto socio-ambientale.
Giovanni Brussato, Energia verde? Prepariamoci a scavare. I costi ambientali e sociali delle energie rinnovabili, Edizioni Montaonda, pagine 246, euro 20