One-man-instituteNew York è la vera realizzazione dell’America e non un’eccezione, dice Antonio Monda

Lo scrittore (e giornalista e docente e direttore artistico e organizzatore di celebri pranzi e tutto il resto) ci racconta il suo nuovo libro e ci spiega perché “la città dove tutto accade” rimarrà il cuore del mondo

LaPresse/Mattia Gravili

Correttamente definito dal New York Times «un istituto di cultura raccolto in una sola persona» Antonio Monda è, dunque, decine di cose assieme. Scrittore, docente di cinema, direttore artistico della Festa del Cinema di Roma, giornalista, direttore artistico del Festival letterario “Le conversazioni” a Capri (che, al momento, prosegue online. Questa settimana con Marilynne Robinson, Emmanuel Carrère, Antonio Scurati e Henry Finder), curatore e ideatore di mostre, perfino attore in qualche occasione, come per Wes Anderson e Paolo Sorrentino.

È da poco uscito il suo “Il Principe del mondo” (Mondadori), l’ottavo libro del progetto (di dieci libri) che Monda sta dedicando alla ricostruzione romanzesca di New York, «la città dove tutto accade». Definito, in un’altra occasione ma sempre dal New York Times, come «il custode della gloria di New York», in questo libro Monda parte dal momento in cui Sam Warner (uno dei fratelli della Warner Bros) introduce il sonoro al cinema e lo cambia definitivamente. Ma il protagonista del libro è il giovane Jake Singer (personaggio di fantasia, e però pure parente del ben più noto Isaac) che dopo aver lavorato con Warner diventa assistente di Joseph Kennedy cioè il capostipite di una delle più note e controverse famiglie americane. Attraverso gli occhi di Jake assistiamo da spettatori privilegiati alla vicenda leggendaria e drammatica di Kennedy Sr., ne conosciamo il carattere ambizioso, ma comprendiamo anche come questo titolo di “Principe del mondo”, che Gesù Cristo aveva coniato per il diavolo e che qui Monda presta a Kennedy, sia denso di sfumature.

Come prima cosa, però, ti chiedo – vale per misurare la distanza con gli Stati Uniti in questo momento – se ti sei vaccinato.
Sono doppiamente vaccinato. Ho fatto la seconda dose da quindici giorni, quindi, teoricamente, in questo momento sono a posto.

Buon per te. E cosa cambia? Ci si sente sollevati?
Ti dico solo che domenica scorsa abbiamo avuto dieci persone a pranzo e domenica prossima ne avremo 12: tutti vaccinati. In America fanno quattro milioni di vaccini al giorno, come è noto, e a New York c’è un’euforia piuttosto impressionante. Ovvio che la città non è ancora quella di due anni fa, però c’è molta voglia di riprendere. Tre giorni fa i sono stato al Whitney per una mostra di Julie Mehretu e c’era un molta gente, come anche al Met per la mostra di Alice Neel.

I tuoi pranzi sono molto noti. Questo è il primo post-pandemia?
Ne abbiamo fatti alcuni un pochino più ristretti. Ma questo è il primo classico, con la tavola piena.

Hai raccontato che quando sei arrivato per la prima volta a New York, sul primo taxi che hai preso il tassista ti ha accolto dicendoti: «Benvenuto nel cuore del mondo».
Non ci crederai, ma ho deciso che il mio prossimo libro sarà dedicato proprio a quel tassista!

Quindi New York è tornata a essere la città che descrivi nel libro, quella sempre proiettata sul futuro?
Primo, tutti avevano dato per morta New York ma, come dice Mark Twain: «La notizia della mia morte è ampiamente esagerata». E poi voglio anche fare una piccola previsione: quando la gran parte della popolazione sarà vaccinata, quando – insomma – si uscirà da questo tunnel, credo che il posto in cui vorranno venire tutti è questo. Perché è il posto che più di tutti è legato all’idea di euforia e di energia, ed è il posto dove le persone desiderano scatenarsi. Quindi penso proprio che questa città si riprenderà alla grande. Adesso, forse, è ancora un po’ presto per dirlo: se vai sulla Madison, per esempio, vedi molti negozi chiusi, ed è triste, sia chiaro. Ma secondo me nel giro di un paio di anni, la città si riprenderà anche meglio e più di altre.

L’energia è già diversa rispetto all’anno scorso?
Oh sì, rispetto a un anno fa direi che la città è cambiata dal giorno alla notte. Innanzitutto, perché sono aperti ristoranti, teatri, cinema, musei e puoi capire bene quanto questo faccia la differenza.

Nel “Principe del mondo” racconti il momento in cui termina l’età del jazz e arriva la grande depressione.
Ecco, lì c’è un dato che forse può essere utile anche per interpretare il presente: nel momento della grande depressione qui hanno costruito l’Empire State Building e il Chrysler Building. Questa è New York, e per questo credo che, ancora una volta, ci stupirà con la sua capacità di risorgere dalle proprie ceneri.

Tu non hai l’impressione che questo rispetto e anche questa passione per la storia e la civiltà americane spesso siano più comuni tra i non americani che tra gli americani stessi?
Sì, può essere, ma non è un fatto legato esclusivamente all’America. Prendi anche Roma: nessuno l’ha raccontata bene come un signore di Rimini che si chiamava Federico Fellini, o, più recentemente, Paolo Sorrentino che è di Napoli. Significa semplicemente che dall’esterno vedi meglio le cose.

Una delle cose che suscita più curiosità nel tuo libro è scoprire come si mescolano realtà e finzione: quanto ti sei divertito a dare voce a personaggi reali, e poi a farli muovere e interagire con i personaggi che avevi inventato?
È la chiave di tutto il progetto: mescolare personaggi immaginari in primo piano – il protagonista, quasi sempre, o la protagonista – e i personaggi reali sullo sfondo. Il modello che ho in mente quando scrivo è il romanzo storico americano alla Doctorow.

Faccio un paragone magari improprio, però mi hai ricordato quel momento dell’autobiografia di Woody Allen in cui lui ammette che il personaggio in cui si è maggiormente identificato è la protagonista della “Rosa purpurea del Cairo”.
Sì certo, Cecilia. Dice «Sono un po’ meno triste di quella donna lì, ma insomma…». Anche a me piace la New York degli champagne-film, quelli dove tutto è perfetto, dove si sogna, dove non esiste la malattia, il dolore… Quella è la cosa che ci ha fatto innamorare di New York. Ovviamente, la città è anche quella, ma non è solo quella: questa è la meraviglia.

Tra i personaggi reali che inserisci nel libro c’è Herman J. Mankiewicz, al centro anche di “Mank”, il film di David Fincher in corsa per l’Oscar.
È un caso, perché non sapevo che stessero facendo quel film. C’è qualcosa di simile nella descrizione che ne faccio nel libro perché Mankiewicz è stato proprio così, un grandissimo talento purtroppo devastato dal vizio dell’alcol.

Una cosa che, invece, è cambiata molto è la centralità del pugilato. I pugili erano più che atleti, gli incontri di pugilato erano eventi che coinvolgevano gran parte della popolazione… Oggi il pugilato è completamente scomparso, non c’è traccia di quel rispetto o di quell’epica. È complicato perfino immaginare cosa sia stato per quanta distanza si è creata in così poco tempo.
Sì, un po’ perché il pugilato è cambiato e, adesso, ci sono altre discipline, come la kick-box, che gli hanno rubato spazio. E poi non ci sono più i campioni leggendari come Mohammed Alì o tutti gli altri miti che abbiamo conosciuto. Ma a me interessa raccontare il pugilato soprattutto perché, credo, sia una straordinaria metafora di che cosa è stata l’America: la sfida, il duello, le immigrazioni – tutti i pugili vengono sempre da un altro Paese. In altri libri, ho raccontato di Tony Zale che era polacco, o Rocky Marciano, italiano.

Anche in questo, ogni pugile rappresenta in qualche modo qualche altra cosa. Perfino contro la propria volontà. Come Primo Carnera con Mussolini.
O come – e ancora di più – Max Schmeling con Hitler. Anche se lì, poi, c’è il colpo di scena…

Che lasciamo a chi leggerà il libro.
Tutta vera la storia di Schmeling, ci sarebbe da fare un film solo su quello.

Forse dobbiamo rassegnarci al fatto che il pugilato ormai funzioni più nei libri o al cinema che nella realtà. Ma questa dello scontro tra due forze è, in qualche modo, la riflessione centrale del libro: è impossibile comprendere dove finisca il bene e cominci il male, sono troppo intricati tra loro per comprendere la loro sfida.
Non è solo in questo libro, è proprio una riflessione costante in tutti i miei libri: non esiste il male da una parte e il bene da un’altra. Chi ha provato a dividerli ha generato dei mostri, si pensi a Jekyll e Hyde o anche ad “Arancia meccanica”. E poi mi hanno sempre affascinato quei personaggi che appaiono orribili e che, però, nonostante la loro mostruosità, in qualche modo sono riusciti a fare del bene. C’è una grandiosità in questo.

Nel libro questa riflessione è, in qualche modo, affidata alle parole di Kennedy Senior quando spiega della necessità di vendere illusioni per superare la crisi. Anche questa è una considerazione molto attuale. Quanto conta farsi illusioni anche adesso e quanto conta, invece, non farsele?
Contano entrambe le cose, le illusioni come il realismo, anzi, guai a scindere una cosa dall’altra! Però, secondo me, c’è un altro momento ancora più significativo ed è quando si racconta la storia di Atahualpa, l’ultimo imperatore degli Inca, un’altra storia totalmente vera.

Nel libro Kennedy Sr. è preoccupato perché teme che gli americani non accetteranno un presidente cattolico. Invece il figlio ci è riuscito davvero. E adesso con Joe Biden c’è il secondo cattolico.
Però concorderai che il secondo su quarantasei è poco.

Kennedy Sr. definisce con disprezzo gli Stati centrali come «Stati su cui volare».
Sì, ma dice anche che «un giorno questi decreteranno un presidente». Com’è successo quando hanno eletto Trump, no?

Esisteva già allora questa enorme differenza? I democratici credevano di contenerla?
Assolutamente sì, l’errore grande dei democratici è averla sottovalutata e non aver saputo interpretare e dialogare con queste persone.

Ma ti sembra che questa distanza tra le coste e il centro diminuisca o aumenti?
Nel lungo termine è destinata a diminuire, ma dovranno passare ancora molti anni. Allo stesso tempo, però, io ritengo da sempre che New York non sia l’eccezione rispetto all’America, ma sia la sua realizzazione completa. Intendo dire che New York non è l’antitesi, ma è ciò che l’America può diventare e desidera diventare. Ed è per questo che è odiata. Quando gli Stati di cui stiamo parlando si avvicineranno a essere come New York, allora sì che si avrà la realizzazione o, quantomeno, ci si avvicinerà alla promessa americana.

Quello che sta succedendo adesso a New York può essere d’auspicio anche per la ripresa in Italia? Sono state programmate le riaperture da maggio in poi… Ci sarà la festa di Roma?
La luce comincia a vedersi. Non è una cosa immediata, sarebbe assurdo pensarlo, ma una luce comincia a vedersi.

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