Viviamo da qualche anno un momento molto fortunato per quelli che una volta venivano semplicisticamente definiti libri di “divulgazione scientifica”. Una definizione ormai molto stretta per libri che toccano ambiente, animali, storia, chimica, gastronomia, fisica. Il solo libro italiano (assieme a quelli di Elena Ferrante) nella recente classifica dei migliori libri del secolo del Guardian è “7 brevi lezioni di fisica“ di Carlo Rovelli, è quasi unanimemente considerato già come uno dei libri dell’anno “Quando abbiamo smesso di capire il mondo“ di Benjamin Labatut e su questa scia è appena arrivato in libreria “Tempo. Il sogno di uccidere Chronos“ di Guido Tonelli. Tonelli è fisico e professore universitario, ha partecipato – anzi, ne è stato portavoce – all’esperimento del CERN che ha portato alla scoperta del bosone di Higgs ed è uno dei divulgatori più noti dei nostri media. Dopo aver raccontato a lungo il cosmo e la fisica quantistica nei suoi libri precedenti, con quest’ultimo ha realizzato un’opera diversa in cui scienza, filosofia, religione e letteratura si fondono. Tonelli racconta come il tempo sia legato allo spazio, come abbiamo imparato a governare perfino il tempo con gli esperimenti di meccanica quantistica, ma pure come il sogno di governare il tempo nei macro-fenomeni della vita sia ancora lo stesso sogno dei nostri progenitori.
La scansione del tempo nelle nostre vite dipende da una serie incredibile di fattori.
C’è in gioco una combinazione di casualità e di leggi della fisica – la gravitazione universale, le leggi di Newton – che si sono combinate in maniera unica. Ma se guardassimo le cose da un punto di vista esterno a quello a cui siamo abituati, cioè la Terra, vedremmo che il nostro angolino quieto e regolare, è, in realtà, un angolo di un sistema che può anche essere burrascoso e turbolento. Qui c’è un equilibrio che si è creato per un tempo lungo, che noi possiamo considerare eterno, ma che ovviamente – se si guardano le cose da una prospettiva diversa – eterno non è. Anzi è temporaneo e locale.
I ritmi circadiani ne sono una conseguenza?
Sì, è un meccanismo che si è sviluppato e ha favorito l’evoluzione. Non si è ancora capito bene come, perché i ritmi circadiani sono stati documentati anche in organismi molto semplici. Una delle ipotesi è che avere un’attività più ridotta e ripararsi di notte, poteva in qualche modo proteggere i meccanismi di riproduzione del DNA, esponendoli meno ai danni dei raggi del sole. Ma è una teoria che non è stata dimostrata. La realtà è che noi abbiamo un orologio biologico sincronizzato sul ritmo giorno-notte, collegato, a sua volta, alla rotazione della Terra. E questo accadeva già in specie che ci hanno preceduto milioni di anni fa. Anche qui, un milione di anni per noi è un tempo molto lungo, ma per una galassia un milione di anni è un battito di ciglia, una frazione quasi insignificante della sua vita.
E per milioni di anni i nostri antenati hanno vissuto il tempo come un fatto naturale, come animali. Quando hanno cominciato a percepirlo diversamente, hanno contemporaneamente cominciato ad aver bisogno di trovare una consolazione.
Qui si va nella congettura, perché il senso della fragilità della condizione umana, della morte, del tempo che passa, della rovina che travolge tutte le cose è probabilmente una delle sensazioni più antiche e profonde, che proprio risalgono alla notte dei tempi. Io immagino che il tentativo umano di dipingere una grotta, di affrescare un antro oscuro o di inumare un cadavere tingendolo di rosso, siano tutte prove materiali che ci dicono che fin dall’antichità si è cercato di esorcizzare la fine inevitabile, costruendo imprese, racconti, opere, che sopravvivessero alla nostra fine.
Solo che la religione e la filosofia, oggi, non riescono più a offrire quella consolazione a tutti. Ci prova la scienza?
Si è sempre pensato che le grandi rivoluzioni scientifiche non avessero anche un forte impatto culturale. Ma io la penso diversamente. Non è stato così nel passato: basti pensare alla rivoluzione galileiana, rispetto alla quale il poeta inglese John Donne disse che il mondo non sarebbe mai più stato quello di prima. Anzi, io direi che è proprio come se si fossero dati la mano Shakespeare e Galileo, che sono nati contemporaneamente e che hanno prodotto uno stravolgimento: Galileo nel mondo esterno, Shakespeare nel mondo interiore. E non è stato così neanche agli inizi del Novecento, quando la scoperta della meccanica dell’universo ha condizionato tutta la cultura: non c’è musica, arte figurativa o teatro che non sia debitrice in qualche modo di quella rottura di paradigma.
E con le cose che scoprite oggi?
Sono convinto che hanno e avranno un ruolo nel futuro, perché cambieranno il modo di vedere il mondo dei nostri figli. Il problema, perciò, è quello di rendere semplici alcuni concetti che sono complicati, perché rappresentano una nuova visione del mondo che butta nelle siepi i vecchi preconcetti. La maniera migliore che ho trovato io è quella di fare un abbondante uso di analogie con l’arte, la letteratura e la cultura, quasi dicendo al lettore: «Attenzione, qui stiamo parlando di scienza, ma stiamo parlando anche di cose che conosci già. Fidati, non è una cosa da specialisti o da cultori della materia: è una cosa che riguarda tutti e che tu puoi afferrare».
È possibile trovare anche qui un equivalente nel passato?
Se nel 1710, a cento anni dalla rivoluzione copernicana, avessi fatto un’inchiesta su tutto il pianeta, tutti – tranne un pugno di scienziati e di intellettuali – avrebbero detto: «È chiaro che il Sole gira intorno alla Terra, lo vediamo, che siete impazziti?». Insomma, ci vuole del tempo perché i nuovi concetti si sedimentino e diventino senso comune. Specialmente quando vanno contro le impressioni comuni.
Cambierà la nostra percezione delle cose?
Nella vita quotidiana potremo benissimo continuare a considerare la materia per come l’abbiamo sempre considerata: guardo un bicchiere, lo prendo in mano, lo poggio ed è sempre lo stesso bicchiere. Però, nel momento in cui dici di voler esplorare com’è fatto davvero questo bicchiere, allora devi attrezzarti diversamente. Un po’ come se uno dicesse: «Per stare in città ho bisogno di jeans, magliette e scarpe e vado benissimo. Ma se devo andare sull’Everest, lì mi serve un’attrezzatura diversa e mi serve anche addestramento specifico». Ecco, la meccanica quantistica è un po’ questo. Vuoi esplorare l’infinitamente piccolo? Ti serve un addestramento mentale completamente diverso, per cui tutto quello che sapevi della vita ordinaria lo devi lasciare da parte. E lì troverai che la materia è cangiante, che qualunque stato passa attraverso un’enorme quantità di stati continuamente, che ci sono fluttuazioni, che l’energia di un sistema non è costante ma varia nel tempo, che vale il principio di indeterminazione, ecc. Tutte cose contro-intuitive. Perché nel nostro mondo macroscopico queste cose non si vedono, gli effetti sono talmente minuscoli che noi siamo abituati a non vederle.
E nell’infinitamente piccolo cosa cambia del tempo?
Il senso del tempo non è messo in discussione, l’organizzazione di passato-presente-futuro oppure ieri-oggi-domani, beh, queste cose la scienza non le cambia: la scienza non può dirti oggi il risultato della partita di domani. Ma aggiunge anche che lì, nell’infinitamente piccolo, il mondo non è più la cosa armonica e regolare che scandisce le nostre giornate, ma è qualcosa che dipende dalla velocità: sono oggetti talmente piccoli che viaggiano a velocità tali per cui il tempo, per loro, rallenta. Sono fenomeni quotidiani che dipendono dal fatto che il tempo e lo spazio sono uniti e, quindi, quando uno si contrae, l’altro si dilata. Fenomeni che generano ilarità quando li spieghi visto che non abbiamo mai visto un essere umano che anziché vivere 100 anni ne vive 100.000.
Cosa otteniamo quando impariamo a governare questi fenomeni?
Negli acceleratori di particelle noi acceleriamo particelle a velocità così vicine alla velocità della luce, che se fossero ferme vivrebbero per una frazione di secondo, mentre così possono vivere tempi infinitamente più lunghi. Oppure le acceleriamo tanto che, ad esempio, certi protoni diventano 7.000 volte più pesanti. Cose che sono inaudite sul piano macroscopico, ma che sono vita quotidiana sul piano microscopico. Cose che non solo sono state osservate, ma sono state capite e, quindi, le possiamo riprodurre e sfruttare per i nostri scopi. Per esempio, nella produzione di un sacco di farmaci chiamati nucleotidici, cioè farmaci per medicina nucleare che si producono con macchine acceleratrici.
La pandemia globale ha offerto alla scienza l’occasione di riconquistare la fiducia perduta: è stata colta?
Sì e no. Globalmente direi di sì, perché siamo qui a discutere di vaccini e a me fa impressione che ci siamo arrivati a una velocità spaventosa. Se questa pandemia fosse avvenuta settant’anni fa, quando sono nato io, l’esito sarebbe stato completamente diverso. Gli strumenti che oggi abbiamo, anche solo per identificare il patogeno e quindi capire come è fatto, capirne i punti deboli e poi mettere a punto i vaccini, hanno evitato effetti che sarebbero stati dieci volte peggiori di quelli che stanno avvenendo. Il solo fatto di aver identificato, nel giro di settimane, l’origine di queste polmoniti interstiziali, e poi il mezzo di trasmissione, e poi le dimensioni di questo coronavirus, com’è fatto, gli spike, come agisce sul corpo, come si può pensare di contenere i danni, è il risultato di quello di cui si parlava prima: se non sapessimo come funzionano le molecole e la meccanica quantistica delle molecole, non potremmo produrre vaccini. I farmaci non si fanno più estraendo da una pianta un certo principio attivo. Si fanno e si progettano studiando in dettaglio tutti i siti locali della molecola per la funzione che deve avere o di colpire un batterio o un virus oppure attenuare un’infiammazione. Quindi c’è stata, per certi versi, l’apoteosi della scienza: nel senso che sapere che in tutto il mondo oggi si siano distribuiti centinaia di milioni di dosi di vaccino è una cosa che ha dell’incredibile.
E la parte negativa?
La cosa che mi irrita come scienziato e che considero un po’ un’occasione perduta, è un certo disordine da parte degli scienziati che sono, beninteso, sottoposti a uno stress incredibile – io non vorrei essere al loro posto, perché sono assediati continuamente da giornalisti e opinione pubblica e tutto quello che dicono viene amplificato – ma proprio per questo mentre alcuni si sono comportati in maniera molto corretta, altri si sono fatti prendere da un po’ di narcisismo, da certe forme di esibizionismo, e si sono scatenati e lanciati in polemiche personali, e hanno detto cose del tutto false senza poi dire «scusate, ci siamo sbagliati». Nel momento in cui viviamo una condizione così drammatica, in cui centinaia di persone muoiono ogni giorno, lo scienziato dovrebbe avere un estremo autocontrollo. Dovrebbe pensare dieci volte prima di dire una cosa e pensare mille volte prima di entrare in polemica con un altro collega. Sono a favore delle polemiche, ma nelle sedi giuste! Se due scienziati si accapigliano su dati tecnici, su una certa terapia o su un vaccino questo mi va bene, ma non mi va bene che avvenga di fronte a un’opinione pubblica che è disorientata e che pende dalle parole degli scienziati. Lo dico con un po’ di ironia ma per alcuni dovrebbe valere la maledizione che lanciava Antonio Albanese quando interpretava un personaggio che amavo, Alex Drastico.
A proposito di tempo, invece, la pandemia ha segnato un trauma profondo.
Anche nell’ipotesi più ottimista e cioè che la pandemia termini fra breve e che, col tempo, si possa ritornare a una condizione che assomiglierà – ma non sarà identica! – a quella precedente, noi ci porteremo questo trauma per sempre. La nostra vita sarà sempre divisa in un prima e in un dopo: è ovvio, l’hanno studiato scienziati ed esperti che hanno analizzato i drammi collettivi, le catastrofi, le guerre, le grandi rotture, quando qualcosa di colpo rompe il ciclo ordinato e regolare di un’esistenza. Tant’è vero che ci accorgiamo facilmente di quanto questo trauma abbia condizionato le nostre esistenze perché, se pensiamo a un anno fa, ci sembra sia passata un’epoca: è come se le giornate si fossero ripetute identiche, ma in questa ripetizione infinita qualunque istante valeva un’ora, non succedeva nulla ma si dilatava, come se avessimo vissuto un’esperienza moltiplicata dall’angoscia e dalla paura. Questo è il tempo che esce dai cardini. È il mondo dei morti che si mescola a quello dei vivi. Si sono rotte tutte quelle trottole incantevoli che governavano la vita ordinaria.
Intanto sperimentiamo qualcosa che pare accada solo nell’infinitamente piccolo: il tempo è rallentato.
Sì, credo che ciascuno di noi ne abbia fatto esperienza. Ecco, una cosa mi dà nostalgia: ricordare i pomeriggi di ragazzino dodicenne, adolescente, che non passavano mai. Il pomeriggio infinito in cui dominava la noia, quel sentimento che oggi non si prova più perché non c’è più il tempo di annoiarsi, il tempo di attendere qualcosa che succede e che in realtà non succede. Ricordo quell’impressione, un po’ legata alla voglia di crescere, di diventare grandi e di diventare adulti. È simile a questo tempo che rimane e che sembra congelato. E viceversa la vita da adulto, intendo da uomo maturo, già coi figli grandi, con responsabilità sul lavoro, in cui sei praticamente perseguitato da una serie di scadenze che non controlli più e che guidano la tua vita quotidiana in maniera automatica, fino quasi a toglierti capacità di scelta: e scopri di colpo che un anno è passato in una settimana, tra meeting, riunioni, impegni, incontri, ecc. È un’impressione psicologica, ma ha una consistenza quasi materiale.
E questo ci ha obbligato a riconsiderare certi meccanismi.
La mia speranza è quella di utilizzare questo tempo sospeso per riflettere su questioni sulle quali, abitualmente, ciascuno di noi dedica poco tempo, trascinato dal vortice della vita quotidiana, da questo scorrere, questo fluire, questa ossessione che ha preso la società moderna per cui tutto è dominato dal ticchettio implacabile dei cellulari, dai clock inglobati nei computer. Ma la pandemia ci fa riflettere anche sulla condizione umana, su quanto è fragile l’equilibrio, e ci toglie qualunque sensazione di onnipotenza. Quell’arroganza che c’è ancora e che era dominante fino a qualche anno fa, per cui sembrava che l’umanità si sarebbe espansa occupando tutti gli angoli del pianeta, consumando sempre di più, ignorando gli equilibri ambientali, e fra specie. Questo risveglio è stato amaro per tutti e forse ci può servire a migliorare. Ma questo è giusto un augurio. Perché bisogna anche dire che, spesso, gli uomini, sottoposti alle tragedie, peggiorano.