Commander in chefBisogna evitare che gli altri definiscano la tua vita, dice Antonia Klugmann

L’ex giudice di Masterchef racconta che con la tv per lei è cambiato molto, ma in provincia non si sente lontana da niente. E, proprio per non abdicare al suo ruolo di donna “visibile”, si rifiuta di relegare alle cucine la questione femminile

fotografia di Mattia Mionetto

Antonia Klugmann è senza dubbio una degli chef più noti d’Italia e il suo L’argine a Vencò (Dolegna del Collio, provincia di Gorizia) è più di un ristorante («Prima di comprare l’edificio, ho girato per un anno in campagna cercando qualcosa che non avesse nulla di brutto attorno, per essere circondata a 360° dalla bellezza»). È uno di quei luoghi che merita di essere visitato appena le limitazioni di questi mesi lo permetteranno, considerando pure che la pandemia dovrebbe aver cambiato il nostro rapporto con l’ecologia. E dovremmo aver imparato ad apprezzare di più lo sforzo di chi riesce a conciliare natura, passione, cucina, sostenibilità, rispetto per il paesaggio e per l’ambiente. Parlare con lei è l’occasione per capire meglio cosa sta significando la pandemia per i ristoranti e per la provincia italiana. Ma è anche l’occasione per capire come una donna può muoversi in un settore – non l’unico, dice lei, anzi – che continua a vedere una schiacciante prevalenza maschile.

Il tuo settore è uno di quelli che sta soffrendo di più. Qual è la situazione adesso?
Mai come in questo periodo mi sono resa conto che ogni ristorante vive una realtà unica, legata da una parte alla microzona in cui è operativo e dall’altra, ovviamente, a quella che è la sua realtà economica. Ma sono tutte storie diversissime: se un ristorante è stagionale o non lo è, se si tratta di una struttura con dei costi fissi alti o meno, se la clientela è locale o, invece, parliamo di un ristorante con una clientela che, per la maggior parte, viene da fuori… Soprattutto, mi sono accorta – e vorrei poter dire “ci siamo accorti” – che il nostro è un Paese fatto di province. C’eravamo convinti che fosse un Paese fatto soprattutto di Milano e di Roma, ma in realtà siamo fatti di tante regioni e le province sono importanti tanto quanto i grandi centri.

Le prospettive quali sono?
Mi sembra chiaro che il problema sanitario non sia risolto perché i numeri sono ancora altissimi. Ma siamo in mezzo anche a un cambio di passo del nuovo governo rispetto alle scelte politico-economiche dei ristori. Nel caso specifico della mia categoria, poi, scontiamo sicuramente un problema legato al codice Ateco, come è evidente ormai a tutti. Nel senso che le realtà sono troppo varie e diverse per trattarle tutte allo stesso modo. Quindi mi sembra giusta l’idea di abbandonare il codice unico. C’è molta varietà, e più il governo riesce a regolare le cose sulla base della varietà più le cose funzioneranno.

Riesci a immaginare il futuro o tenere a bada il quotidiano assorbe tutta la tua attenzione?
Il mio modo di essere imprenditrice si è sempre basato sull’immaginazione che per me, però, significa immaginare le cose nel modo più realistico possibile – e però anche più visionario – e poi fare di tutto per realizzarle. Non lascio mai nulla di intentato, se una cosa mi interessa. Una creatività di questo tipo mi è stata utile quest’anno, perché è stato necessario essere elastici, calarsi nella realtà e provare a immaginare i bisogni delle persone prima che venissero espressi.

Per esempio?
C’è una grande differenza tra il primo lockdown e quello che stiamo vivendo adesso. Nel mio piccolo, l’avevo intuito già a dicembre quando ho deciso di non aprire il ristorante neanche un giorno, anche se avremmo potuto, perché immaginavo che le cose sarebbero andate come poi sono andate. Mi sono resa conto anche che c’era un cambio nella gestione della vita familiare e che, al contrario del primo lockdown, adesso le persone sono, in qualche modo, incatenate al computer, a casa, dove continuano a lavorare e hanno bisogno di un servizio semplificato di delivery. Quindi abbiamo deciso di aprire un negozio a Trieste che fosse luogo di distribuzione in città, dove le persone hanno la libertà di andare a ritirare il loro ordine quando vogliono, in una fascia oraria molto più ampia, e noi non siamo costretti a distribuire in un’ora specifica. Abbiamo deciso di utilizzare L’Argine a Vencò come dark kitchen, luogo di produzione, e poi semplificare la distribuzione.

Quest’intuizione ha pagato?
La mia cucina non ha mai smesso di lavorare e non ho dovuto mettere i miei ragazzi, a lungo, in cassa integrazione. Oltretutto, pensare alla cucina è diventato interessantissimo. Per esempio, non mi ero mai occupata di cucina tradizionale, e invece per tutto il delivery ho fatto cucina tradizionale regionale. Ho declinato le tecniche del mio ristorante alla cucina di casa: le lasagne, gli gnocchi, i brodi, le zuppe…

La pandemia ha spinto molti a ripensare anche al rapporto con l’ambiente, la natura e l’inquinamento. Tutti temi a cui tieni molto.
Adesso le persone desiderano il verde come non gli era mai capitato prima di questa esperienza. Desiderano le passeggiate, la natura, la bellezza fuori dalle case. Questa cosa mi è chiara ed è una necessità umana che spero troverà sbocco nelle scelte politiche. Ho letto quello che vuole fare il ministro Dario Franceschini a proposito della tutela del paesaggio, l’investimento nelle nostre campagne e nel recupero dei rustici… Sarebbe fondamentale! Il bisogno di bellezza è qualcosa che capisco bene, perché è quello che mi ha portata a Vencò. Prima di comprare l’edificio del ristorante, ho girato per un anno in campagna cercando qualcosa che non avesse nulla di brutto attorno, per essere circondata a 360° dalla bellezza.

Cos’è cambiato, invece, nei gusti?
Durante il primo lockdown tutti avevano voglia di fare lo chef di casa e di cimentarsi in ricette complicate. Ma adesso sento diffondersi la necessità di dire: «Basta, voglio riscaldarmi una zuppa, però che sia più buona di quello che potrei fare io». E noto che questo ha portato le persone a fornirsi più vicino a casa, nelle botteghe, e che si è diffusa una sensibilità che, prima, era riservata ai gourmet. Il lavoro del microproduttore viene compreso meglio e mi auguro che anche i supermercati – che hanno avuto incrementi di lavoro allucinanti – comprendano la necessità di tutelare e legarsi anche alle filiere locali.

Qualcuno teme che le città non torneranno più davvero come prima. In ogni caso l’idea di sviluppo sarà necessariamente diversa.
Mi auguro tantissimo che ci siano delle scelte di prospettiva da parte del governo, soprattutto a proposito della tutela del paesaggio. Ma dall’altra deve esserci la volontà delle persone nel desiderare il cambiamento, altrimenti non c’è verso. Sono molto preoccupata quando le persone mi dicono «Non vedo l’ora di tornare alla vita di prima, di dimenticare ciò che è accaduto», e, in effetti, ci siamo tutti già resi conto, la scorsa estate, che questo desiderio di dimenticare e di passare subito oltre c’è.

Cosa ti preoccupa di questo atteggiamento?

Non vorrei che si tornasse, in maniera schizofrenica, a un’idea consumistica anche di questi cambiamenti. Non è che nel momento in cui tu compri un prodotto che rispetta l’ambiente diventi automaticamente una persona migliore… È ovvio che in ogni acquisto c’è un desiderio che dipende anche da una questione consumistica, però bisogna anche ragionare sulle cose e dargli un senso che sia personale.

È difficile immaginare come i cambiamenti personali possano cambiare poi davvero il Paese.
Credo che i grandi cambiamenti debbano essere anche quelli della vita di ciascuno. Ma fino a quando non vengono interiorizzati, digeriti e ripensati sulla base della propria emotività e dei propri pensieri, non servono a nulla. Se hai a che fare con dieci anziani e gli domandi della Seconda guerra mondiale, ottieni dieci esperienze diversissime. Solo nella mia famiglia avevo un nonno che si stava nascondendo dai nazisti, un altro che era fascista, un altro che ha sofferto la povertà… Voglio dire che i cambiamenti epocali possono essere vissuti in maniera tanto diversa, ma poi – purtroppo o per fortuna – bisogna interiorizzare questi cambiamenti.

Visto che parli di famiglia. Quanto contano ancora famiglia e territorio in cucina?
Ogni famiglia ha una storia diversa e le cose si intrecciano. Magari famiglie della Carnia, delle montagne friulane o della bassa hanno storie familiari più omogenee, ma qui verso Trieste le cose sono più particolari. Tipo, appunto, la mia famiglia, in cui mia nonna ferrarese ha portato nella cucina di casa la pasta fresca, il ragù, i grandi primi all’italiana o i fritti misti. La parte triestina e il nonno ebreo polacco hanno portato gli abbinamenti di carne e frutta, il gulasch, le cose tipiche dell’Est Europa, e poi c’è la parte del Sud – potente dentro di me – perché mia mamma ha portato la tradizione di mio nonno di Molfetta. Quindi è chiaro che io rappresento questo e parlare di territorio nella mia regione è interessantissimo anche per questo.

Territorio è anche una parola di cui si abusa per marketing.
Il problema dell’Italia è che dobbiamo spingere gli italiani delle altre regioni e gli stranieri a venire fisicamente nelle nostre regioni ad assaggiare le cose, perché la chiave non può essere quella di trasformare le micro-produzioni in grandi produzioni per poterle esportare, ma far capire come le piccole produzioni del nostro Paese siano legate a delle tradizioni artigianali, locali, che possono essere solo fatte in loco e solo in quel modo lì: verdure che devono essere coltivate solo in quella microzona, solo in quel modo e secondo quella tecnica oppure penso ai formaggi, o ad alcune paste fresche, cose che non possono essere mandate altrove. Il turismo dovrebbe essere di prossimità in questo senso: leghiamo il luogo al prodotto, all’artigianato che c’è dietro e comprenderemo meglio un territorio e lo tuteleremo meglio anche da un punto di vista politico. È tutto molto molto legato.

Dicevi della difficoltà a comprendere la provincia.
Capita spesso il cliente di Milano o quello di Roma, che dice «Certo che lei è veramente lontana» e io dico «Ma da chi sono lontana?». C’è sempre questo pensare a Milano o a Roma come centro, ma io non sono lontana, sono solo situata qui, è lei che vive lontano da me.

Sull’ambiente ci auguriamo qualche passo in avanti più concreto. Sul ruolo della donna?
Mi ha fatto tanto ridere, durante la settimana della Festa della Donna, che ancora mi si facessero delle domande riguardo alla situazione delle donne in cucina. Ed è ridicolo perché mai come in questi ultimi due anni è cresciuta secondo me la consapevolezza – e l’analisi corrispondente anche della società – che il problema non è nelle cucine. Si è sempre voluto dire che ci fosse un problema di genere dentro alle cucine professionali per giustificare l’assenza di donne, invece mi sembra evidente e chiaro che il problema sta fuori. Il problema sta nella società e nel modo in cui la questione è declinata in tutti i mestieri. Non c’è un problema legato alla cucina. La percezione del corpo della donna, della femminilità, e la gestione delle problematiche di genere sono assolutamente trasversali.

Quando avevi lavorato a “Masterchef” ti era capitato di ricevere insulti molto pesanti sui social.
Sì, mi sono capitati ed è stato interessante, perché certi insulti ti fanno riflettere sul problema del linguaggio permesso nei confronti di una donna, ma anche sulla violenza dei social media, così come sulla loro immediatezza. Devo anche dire che è durato due-tre settimane e poi la cosa è scemata. Mi è capitato, però, di vedere molte incursioni violente su altri profili e mi stupisco di come magari persone molto note e con profili pubblici non segnalino e non facciano cancellare i commenti violenti e permettano che nelle loro bacheche si utilizzi un certo tipo di linguaggio. Non si parla abbastanza di questo, secondo me, ci deve essere un controllo anche da parte di chi gestisce il proprio profilo, nel dare delle regole a chi commenta.

Immagino tu abbia letto che il 98 per cento delle persone che hanno perso il posto di lavoro durante la pandemia sono donne.
Sì, siamo un Paese ancora molto arretrato in questo senso. Fino a quando la parità nelle case non sarà una realtà nei fatti, i numeri nei luoghi di professione, soprattutto nei luoghi competitivi, saranno sempre drammaticamente sproporzionati

Tu sei una delle più note chef del nostro Paese.
Grazie alla visibilità che ho ottenuto, ho ottenuto anche un ruolo nel mio mondo, da quarantenne donna, che non posso e non voglio declinare, sia per le giovani ragazze, sia per chi lavora con me. Quindi non voglio in nessun modo togliermi da questa responsabilità nella conversazione, però mi rifiuto di relegare la questione femminile solo alle cucine: è un problema della nostra società, di possibilità diverse che le donne hanno nella fase in cui costruiscono le loro carriere. E non c’è verso di ridurre il problema ad ambiti specifici: bisogna arrivare a una parità di fatto che consenta alle donne il viaggio, la relazione e la competizione alla pari degli uomini.

Abbiamo anche accennato alla televisione. Ti manca?
Lo dico sinceramente, per me con quell’esperienza è cambiato tantissimo. Ma, di nuovo, le cose non sono capitate: le ho volute fortemente, e tutti i cambiamenti che sono arrivati dopo, sono stati dei cambiamenti in parte innescati dall’esperienza televisiva e poi portati da me in altre direzioni. La vita ti offre delle opportunità che poi spetta a te gestire come vuoi. Non mi sono pentita in nessun modo dell’esperienza televisiva, anzi è stata una cosa che mi ha messo in discussione su piani nuovi, diversi, interessanti, avventurosi. Soprattutto la tv mi ha fatto capire come bisogna evitare a tutti i costi che gli altri definiscano la tua vita. Una cosa che mi ha colpita e mi è rimasta impressa è che, spesso, le persone mi dicevano cosa sarebbe accaduto, e provavano a definire la mia vita secondo la loro immaginazione. Ma in realtà nessuno sa nulla. L’unica persona che sapeva dove voleva andare ero io. Quindi bisogna essere forti e avere una visione di quello che si vuole e usare le cose che ci capitano nella vita per arrivarci.

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