Alleanza competitivaIl Pd vuole dare le carte per il sindaco di Roma, ma non ha un asso nella manica

La grande pretesa del Nazareno è che Virginia Raggi si ritiri dalla corsa per il Campidoglio, ma intanto Letta non ha trovato un candidato alternativo a Gualtieri: né Zingaretti (per ora) né Madia hanno intenzione di candidarsi. E incombe Calenda

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Il Partito democratico pretende che Virginia Raggi rinunci alla ricandidatura, ma la pretesa è irricevibile perché la sindaca di Roma ha tutto il diritto, in quanto sindaca uscente, di aspirare a un secondo mandato. Almeno su questo punto, lei ha ragione e non riuscirà certo Giuseppe Conte – inedita figura di leader/non leader – a farle cambiare idea. È piuttosto il Pd ad avere, sulla Capitale, un atteggiamento incomprensibile.

Ieri, l’onorevole Claudio Mancini, uomo forte del Pd romano (quello che aveva dato notizia della scesa in campo di Roberto Gualtieri senza che quest’ultimo lo sapesse) ha dato una nuova definizione del rapporto fra Pd e Movimento 5 stelle: «Alleanza competitiva». Una contraddizione in termini nella quale, diciamo la verità, il sostantivo è vero mentre l’aggettivo è falso: se ti allei, ti allei, non competi. È come dire, picchiamoci ma piano piano. Al limite, era più onesta la formula precedente, «alleanza strategica», invero naufragata nelle radiose giornate di Ciampolillo, ma più credibile.

In realtà dietro il bizantinismo della formula c’è la solita idea molto da Partito comunista italiano di voler dare le carte, e l’intendenza seguirà. D’altronde come diceva Massimo D’Alema, punto di riferimento fortissimo del Pd romano, «Capotavola è dove mi siedo io». In fondo è sempre l’antica idea dell’alleanza del piccolo partito dei contadini con il grande Partito: solo che si era in Polonia più di mezzo secolo fa, mentre oggi il partito dei contadini, alias M5s, non si sa nemmeno bene cosa sia.

Ecco da dove viene la grande pretesa del Nazareno, quasi un’implorazione: Raggi ritirati. Più subalterni di così si muore. Ed è anche la condizione posta (scrive Repubblica) da un Nicola Zingaretti per scendere in campo: o davvero non vuole candidarsi a Roma perché impegnato in Regione fino al 2023 eccetera eccetera; oppure sarebbe anche disposto a correre ma sostanzialmente da solo, in una cavalcata trionfale degna di Traiano dopo la vittoria in Dacia. Ma se le cose stanno così, cioè con Virginia in campo, l’ex segretario del Pd non sarà della partita con la scusa – in sé forte – della permanenza in Regione Lazio, con gran beneficio, fra l’altro, della sua salute fisica e mentale e con un futuro da parlamentare di primo piano.

Nemmeno Marianna Madia ha intenzione di candidarsi. A Letta sarebbe piaciuta molto come soluzione e non solo per il fatto che si sarebbe trattato di ulteriore tassello nella femminilizzazione delle scelte del partito – ma anche perché con l’ex ministra Letta è politicamente in sintonia, essendo stata Madia fra i volti emergenti prima all’Arel di Beniamino Andreatta e poi della vecchia associazione lettiana “Vedrò”. Però anche lei, che tra l’altro vive una fase critica dopo la competizione con Debora Serracchiani per il ruolo di capogruppo, nisba.

A questo punto, alla fine di questa estenuante girandola di cuor di leone, in campo resta Roberto Gualtieri, sul cui nome da giorni tutti i quotidiani notano le perplessità di Letta che non si è finora minimamente speso per l’ex ministro dell’Economia rimasto fuori dal governo di Mario Draghi, il quale gli ha preferito un tecnico come Daniele Franco. Gualtieri è uomo di studi e di understatement brussellese, non esattamente un capopopolo pur militando da quarant’anni nella sinistra. Sotto questo aspetto sarà tutta da vedere il confronto anche fisico con due tipi tosti come Raggi e Carlo Calenda.

Il leader di Azione in ogni caso tira dritto per la sua strada, tra l’altro facendo presente al Pd il rischio di primarie molto ridotte sul piano della partecipazione e parecchio condizionate dallo scontro fra gruppi contrapposti di casa dem, con o senza tessera. Meglio sarebbe un accordo sul suo nome – fa sapere – magari con un esponente del Pd come vicesindaco.

Da Letta finora nessuna risposta. Non è escluso che il segretario avanzi una proposta già sabato all’Assemblea nazionale del partito. Per lui è la scelta più difficile, una sconfitta a Roma vale più di due regioni perdute, come accadde a Walter Veltroni che perse Abruzzo e Sardegna e si dimise. Altri tempi, certo. Ma Letta deve fare una scelta chiara, e la deve fare adesso, più passa il tempo, peggio è.

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