Un anno fa, di questi tempi, era tutta una caccia ai runner. Un anno dopo, numeri simili a quelli che giustificarono la proibizione dell’attività fisica in qualunque luogo pubblico (strada, parco, spiaggia, bosco…) e una vera persecuzione mediatica dei “furbetti della corsetta”, autorizzano l’inizio di uno sperabile, ma lentissimo ritorno alla normalità e l’apertura di bar e ristoranti all’aperto.
Torniamo all’aprile 2020. L’anti-civismo degli egoisti, che non sapevano rinunciare al vizio podistico, insensibili alla sciagura che si stava abbattendo sull’Italia e agli accresciuti pericoli cui, sputazzando i propri droplet per ogni dove, esponevano la collettività nazionale, divenne in poche settimane il concentrato iconico dell’irresponsabilità sociale e il corridore imbolsito di mezza età, che sgambettava tra i divieti (anche se “in prossimità della propria abitazione”), fu eletto effige dell’untore contemporaneo.
Se si passassero in rassegna le tonnellate di parole con cui politici – soprattutto sindaci e governatori – e scienziati di ogni risma hanno imposto (i primi) e giustificato (i secondi) la proibizione dell’attività fisica all’aperto – in qualunque circostanza, in qualunque luogo – oggi verrebbe da sorridere, ma anche da inorridire, considerando i catastrofici risultati di una politica che pensava di surrogare l’incapacità di tracciamento dei contagi, di isolamento dei contagiati e di trattamento dei malati, stoccando come rifiuti tossici tutte le famiglie italiane dentro abitazioni per lo più piccole e inadeguate a qualunque possibile distanziamento o cautela auto-protettiva.
C’era l’esimio medico sportivo, che spiegava che correre per strada era una fuga dai propri doveri civici e un serio rischio sanitario e l’altrettanto esimio pediatra, che ammoniva come portare a spasso in passeggino un neonato di tre mesi, per fargli prendere un po’ d’aria, fosse un rischio inutile. C’era il governatore che pretendeva l’arresto dei vecchi “cinghialoni” che arrancavano per strada e l’altro governatore che minacciava la deportazione dei podisti nelle terapie intensive, perché prendessero atto delle conseguenze della propria irresponsabilità.
Dietro l’identificazione del runner o perfino del bambino che sgambetta sotto casa nel nemico numero uno delle politiche anti-Covid c’erano ovviamente dinamiche di psicologia sociale abbastanza elementari e conosciute. In una situazione in cui tutti soffrono, la capacità di ritagliarsi comunque uno spazio di gioco e di svago suona a volte come un affronto per chiunque non possa parteciparne o non ne abbia interesse.
Visto che chi è infelice è spesso offeso dalla felicità altrui, capace di suscitare un senso non solo di invidia personale, ma di ingiustizia metafisica, è stato facile dirottare la rabbia di milioni di persone segregate in casa, in difficoltà economica e minacciate da una malattia potenzialmente mortale verso qualche milione di concittadini, che continuavano imperterriti a volersi divertire e a fare il pieno di endorfine.
Una politica responsabile dovrebbe riconoscere come una potenziale bomba civile questa epidemia di sentimenti tristi, parenti delle passioni tristi della frustrazione e dell’alienazione politica. I politici italiani e gli scienziati di complemento, che si presentavano ogni giorno in tv a fare fervorini moralistici per imporre l’imperativo categorico dello “stiamo tutti a casa”, hanno invece scelto interessatamente di gettare benzina sul fuoco, sapendo che di fronte a una situazione fuori controllo, che aveva sorpreso e travolto le società e i sistemi sanitari di tutta Europa (anche se in proporzioni diverse), un po’ di insano colpevolismo e una nuova e inedita caccia all’untore avrebbe potuto rappresentare il paravento di una inefficienza di governo fino a quel momento non ancora dimostrata, ma ampiamente annunciata.
Erano – è bene ricordarlo – i giorni in cui ministri, sottosegretari, vertici di istituzioni sanitarie e della Protezione civile, consulenti ministeriali e scienziati televisivi e, in capo a tutti, l’Oms assicuravano che le mascherine, peraltro introvabili, non erano utili alle persone sane per evitare il contagio, essendo sufficiente il distanziamento personale. A distanza di un anno, la situazione si è ribaltata.
La vita e l’attività all’aperto (compresa quella sportiva) è considerata l’unica forma di socialità Covid-compatibile (l’apertura di bar e ristoranti all’aperto è stata sponsorizzata da notori “rigoristi”) e le mascherine, sia al chiuso sia all’aperto, sono diventate obbligatorie per tutti.
Eppure i famosi “numeri” che secondo la demagogia politico-scientifica rappresenterebbero una sorta di pilota automatico delle scelte di governo non sono così diversi da quelli di un anno fa.
Oggi l’indice RT medio nazionale è di 0,81. Esattamente un anno fa in tutte le regioni era inferiore a questa media e compreso tra 0,2 e 0,7. Anche la mortalità da Covid è su livelli analoghi, anche se inferiori, a quelli di un anno fa. Dal 1 al 24 aprile 2020 morirono 2.742 persone. Nella stessa settimana, quest’anno, ne sono morte 2.094. Eppure i numeri sembrano confortare il rischio calcolato di riaperture significative (quasi tutta Italia oggi torna in zona gialla), mentre un anno fa giustificavano il lockdown più intenso ed esteso d’Europa e una scelta di segregazione domiciliare che, dall’autunno 2020 in poi, anche nelle situazioni più drammatiche, non è stata più perseguita e neppure considerata nell’ordine delle possibilità.
Questo capovolgimento dei criteri di “proibito” e “consentito” nel contesto pandemico offre alcune lezioni utili, se lette con un minimo di ragione e onestà, quindi senza concedere nulla al conformismo politico-sanitario che ha accompagnato i dibattiti tra aperturisti e chiusuristi e all’unilateralismo salutistico come a quello produttivistico, che purtroppo continua a segnare gli scontri nell’esecutivo.
Anche la piccola, ma istruttiva vicenda dei runner dimostra che la gestione del rischio e dell’incertezza non si giova di un uso sconsiderato del principio di autorità. Non avere mai voluto ammettere, dall’inizio della pandemia, che le scelte venivano adottate sulla base di ipotesi congetturali o di condizioni di fatto che ben poco avevano a che fare con un sapere certo, e che ogni scelta doveva considerarsi reversibile, avrebbe insegnato all’opinione pubblica a non diffidare pregiudizialmente di decisioni politiche mutevoli e apparentemente arbitrarie.
Affidarsi all’ipse dixit della scienza e a zelanti scienziati, sempre disponibili ad ammannire la verità di giornata per chiudere ogni discorso, ogni dibattito civile e ogni possibile controversia, ha persuaso la generalità dei cittadini che la scelta di imporre regole che non bisognava capire, ma semplicemente obbedire, nascondesse un inganno voluto e un disegno inconfessato.
Ora nel dibattito sugli orari del coprifuoco e sull’allentamento delle misure restrittive sarebbe saggio evitare di intestare alla scienza, magari con la “S” maiuscola, una decisione assunta in condizioni di estrema incertezza, che quindi implica di per sé possibili passi avanti e marce indietro. E occorrerebbe tenere sempre presente che questo modo sbagliato di “fare politica sul Covid” in Italia – di cui la persecuzione dei runner ha rappresentato un esempio paradigmatico – è stato per più di un anno un modello negativo di pedagogia civile e di governo sociale e sanitario del fenomeno, come dimostrano implacabilmente tutti gli indicatori di risultato.