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L’innovazione che serveNon solo tecnologia: la trasformazione digitale in azienda deve poggiare sulle persone

Se ne è parlato nel webinar “Digitale e capitale umano, le chiavi per la crescita aziendale nel 2021” tenutosi nell’ambito del progetto Sparks of Knowledge di Badenoch + Clark. Con Federico Fontana, Gianluca Salviotti, Aline De Lucca, Alessandro Montanari e Ottavio Campigli

(Unsplash)

La tecnologia da sola non basta. «Il legame tra digitale e capitale umano sarà il fattore critico di successo per le aziende che vorranno essere virtuose nel prossimo futuro», dice Federico Fontana, managing director di Badenoch + Clark, introducendo il webinar “Digitale e capitale umano, le chiavi per la crescita aziendale nel 2021”, tenutosi nell’ambito del progetto Sparks of Knowledge.

Al dibattito, che ha indagato come si possa tracciare un percorso di evoluzione digitale partendo dalle persone e dalla cultura aziendale, hanno preso parte: Gianluca Salviotti, Associate Professor of Practice Information Systems and Digital Transformation di SDA Bocconi; Aline De Lucca, Market Hr Cluster Lead for Italy, Spain, Portugal and Greece di Google; Alessandro Montanari, Chief People Officer del Gruppo Reda; Ottavio Campigli, partner di Badenoch + Clark Executive.

Nei mesi scorsi – ha raccontato Salviotti – circolava un meme online in cui si chiedeva «Chi ha guidato la trasformazione digitale nella tua azienda?». E tra le tre scelte a disposizione – Ceo, Chief Technology Officer e Covid-19 – veniva barrata l’ultima, quella relativa alla pandemia. «Si è detto che i 12 mesi di pandemia sono stati come sette anni di trasformazione digitale», racconta il professore. «Ma se questo è vero, mi aspetterei di vedere questo impatto nei conti economici delle aziende». E invece «non si vede né a livello economico e neanche nelle proiezioni».

Questo perché, spiega, «la trasformazione digitale ha bisogno di tempo e soprattutto non riguarda solo gli investimenti in tecnologia». L’altro elemento per far funzionare la ricetta e generare valore «è il capitale umano. Altrimenti la trasformazione digitale non avviene».

Come insegnava Steve Jobs alla fine degli anni Novanta, bisogna partire dai benefici che si possono generare per i clienti, non dalla tecnologia in sé. «Per fare digital e trasformazione digitale ci vuole un approccio ampio», dice Salviotti. «Bisogna focalizzarsi sull’execution e non sull’effetto “wow” delle tecnologie». Come? Facendo piccoli passi concreti, senza prevedere il futuro. «Il futuro lo devo creare con il digitale, generando una visione positiva di quello che posso diventare e dei benefici che voglio portare», spiega il professore. «Visione e strategia devono essere il punto di partenza», sapendo che «il bruco diventa farfalla ma lo fa attraverso fasi intermedie, quelle della crisalide e della farfalla che impara a volare».

Certo, il tempo, la pressione degli azionisti e del mercato possono mettere fretta. Così come un evento dirompente come il Covid. Ecco perché «l’approccio di apertura al cambiamento a scalini» deve essere «una strategia quotidiana costante», ma sempre «condivisa con il capitale umano: quello che non funziona lo scarto, quello che funziona lo scalo».

Ma in questa ricetta non devono mancare le competenze. A partire dalla digital literacy dei c-level, che deve essere «tanto importante quanto la financial literacy», dice Salviotti. E soprattutto una nuova organizzazione nelle imprese «per dare modo alle persone di esercitare la propria capacità e il proprio talento». Solo così si possono creare «le condizioni per cui il capitale umano diventa ingrediente centrale insieme alla tecnologia», dice Salviotti. Solo così «possiamo vedere molto presto gli effetti positivi della trasformazione digitale».

E una conferma arriva proprio da Aline De Lucca, che dall’osservatorio di Google spiega che «il fattore umano va pensato prima della digitalizzazione in sé». Il primo passo, dice De Lucca, deve essere «capire come le persone processano i cambiamenti, perché non si ha paura dei cambiamenti ma di quello che si potrebbe perdere». E quindi in azienda «diventa importante il processo di comunicazione, spiegando perché si sta facendo una determinata scelta, distribuendo le responsabilità e facendo in modo che queste responsabilità siano nelle mani delle risorse più resilienti, motivate e visionarie, in grado di spiegare agli altri cosa si guadagna e non cosa si perde con il cambiamento».

L’obiettivo è quello di generare una contaminazione a tutti i livelli, un effetto a cascata nelle organizzazioni. Che non dovranno più essere le stesse, come spiega Alessandro Montanari. «I dipartimenti a silos, ciascuno con le proprie funzioni, hanno sempre meno senso. Le organizzazioni sono sempre più liquide», dice. «E gli hr in futuro saranno quindi sempre più “architetti della collaborazione” in azienda, soggetti che si fanno carico di disegnare e coordinare i nuovi spazi».

Tutto questo però deve necessariamente confrontarsi con la realtà imprenditoriale italiana. Come spiega Ottavio Campigli, «solo il 9% delle aziende ritiene che le proprie persone siano pronte per il cambiamento a cui andiamo incontro». Ma nello stesso tempo, «l’80% ritiene che il 2021 sia il momento giusto per lavorare sul capitale umano e l’organizzazione per metterli al centro e renderli fattore abilitante della trasformazione digitale».

Cosa fare? Se è vero – come ha raccontato la Harvard Business Review – che il 59% delle migliori aziende al mondo nella selezione dei c-level ha messo come primo requisito la digital readiness, il primo step sarà quindi lavorare sulle competenze. «Sia sui nuovi assunti, costruendo un team di innovation che sia portatore sano di know how», dice Campigli, «sia su tutta la popolazione aziendale, in modo che tutte le funzioni – e non solo chi fa tech – siano parte del cambiamento».

Badenoch + Clark, ad esempio, ha costruito uno strumento chiamato “Digital Readiness Check Up” da mettere a disposizione delle aziende per identificare le competenze digitali dei professionisti, compararle con il mercato e poi lavorare sulle lacune esistenti con percorsi formativi personalizzati.

Altri suggerimenti arrivano da De Lucca e Montanari. La manager di Google ribadisce l’importanza di «avere un gruppo di persone in azienda che sia in grado di trascinare gli altri nel cambiamento», puntando su una «comunicazione efficace che mostri quali sono i benefici apportati dal cambiamento digitale». Secondo Montanari, poi, «ci deve essere uno spazio di leggerezza da recuperare nelle aziende per essere veramente innovativi». Uno spazio in cui si può procedere anche per tentativi ed errori. «Spesso quando innovi fai degli errori», diceva Steve Jobs, «meglio ammetterli rapidamente e continuare a migliorare le altre tue innovazioni».

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